Elisa
Fuksas, regist-architetto?
Nina. Un
altro "figlio" (d'arte) precario e autoreferenziale?
Di sarah panatta
Inquadratura-battito.
Caratteri-zombie. Senza, battito. Che sospingono, anzi respingono, desideri di
carta pesta, cresciuti artificiosi e contratti, rattrappita dissolvenza, sul
cemento, come origami senza spirito. Caratteri ammorbati, incarnato cupio dissolvi, ansia sottile e
incomprensibile, che si emarginano, scavandosi, personaggi-ferita, senza
riconoscersi.
Il dramma del
precariato emotivo autocostretto in una vita urbana sottovuoto? L’esordio alla
regia di Elisa Fuksas vuole riscattarsi dell’eredità trascinante di
(celeberrimi) genitori, architettando un’opera contemplativa, da catalogo
neo-classico/naif, tra De Chirico, Fellini e Risi, passando tangenzialmente per
Moretti. Fuksas si psicanalizza, proietta in Nina (morbida deliziosa Diane
Fleri, Mio fratello è figlio unico, Febbre da fieno), protagonista omonima
del film, la rigida prosperosa fisicità di una donna in negazione. Aperta in
variopinti leggeri sorrisi, per metà accennati, sul mondo intorno. Tracciato di
mete predefinite con cura e disciplina. La passeggiata con il cane depresso dell’amico,
partito per le sacrosante vacanze; la sacrale corsa mattutina tra i monumenti
alteri e assolati dell’Eur agostano; la capatina notturna tra i fantasmi del
quartiere, specchio di passioni assassinate prematuramente; le lezioni di
cinese dal sinologo-confessore; le lezioni di canto impartite a creature
sincere ma dissonanti. Punto di rottura inevitabile, scultura di garbo e di
evanescenza, il violoncellista Fabrizio (Luca Marinelli, Tutti i santi giorni, Waves).
Inseguimento paziente, la relazione necessaria eppure inconcepibile tra i due,
si trasforma in attesa e non detto.
Incompleto ed estatico
come i suoi personaggi, respiro geometrizzato di solitudini volontarie, e
analisi identitaria mancata, il film di Fuksas non apre i quesiti professati.
Non affonda nelle plaghe della generazione-dei-numeri-primi, i venti-trentenni
votati all’hic et nunc mai problematizzato in cui pure Fuksas si immedesima. La
giovane figlia “di” si limita ad esorcizzare il peso estetico e teorico di
un’arte di cui vuole liberarsi ma da cui è drogata e mai stanca. Manuale
d’amore impossibile, interiorizzato ma straniato dalla propria intentata
empatia, costernato in una pellicola priva di reale dialettica visiva.
Ennesimo bagaglio ben
confezionato di un progetto in partenza, pronto al volo, eppure mutilo, nelle
ali quanto nella parola. Dialogo muto, ennesimo caso di incomunicabile
autocelebrazione.
Perché morire di
autoreferenzialità?
Nina.
Regia di Elisa Fuksas. Con Diane Fleri, Luca Marinelli, Ernesto Mahieux, Luigi
Catani, Marina Rocco, Andrea Bosca, Claudia Della Seta. Sceneggiatura Elisa
Fuksas e Valia Santella. Direttore della fotografia Michele D’Attanasio.
Musiche originali di Andrea Mariano. Prodotto da Magda Film e Paco
Cinematografica. In collaborazione con Rai Cinema. Distribuito in Italia da
Fandango. Dal 18 aprile in sala. Durata 84’.
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