mercoledì 1 maggio 2013

Racconto: Iolanda La Carrubba

Perché ti chiami Anna?





 
Ti ho conosciuta ieri Anna, al padiglione 3 stanza 1, non eri l’Anna del diario, di quel diario fatto di polvere d’uomo vita ed orrori, eppure nei tuoi occhi ho riconosciuto un dolore simile, il dolore di una vita estranea al tuo bisogno di verità, un dolore d’abbandono e d’incertezza, un dolore inodore, insapore, incolore. Avrei voluto chiederti il numero di telefono, augurarti Buon Natale, giocare almeno una volta a burraco nel tuo salotto buono ma triste, ma forse sarei stata indiscreta nel precipitare d’impeto nella tua vita, come pioggia fresca però troppo pungente. Ti ho conosciuta ieri Anna, avevi qualcosa d’americano nella tua collana di perle vere e qualcosa di francese nei tuoi occhiali dalle lenti rosa sulle quali il riflesso di un presente nitido, attraverso di esse invece, ho riconosciuto le mie nonne che non ci sono più, ma che purtroppo hanno fatto in tempo a ricordare gl’incubi delle due guerre mondiali. Chissà quante cose hai visto tu Anna, con i tuoi modi eleganti, la gonna scozzese, la giacca con il collo di pelliccia, mentre ti guardo ammirata e muta, un piccolo cenno di rammarico ti sorprende e tu lo nascondi gentile dietro un mite sorriso d’infanzia. Ieri Anna era un giorno freddo comandato da un lontano sole giallo e rotondo, lo stesso sole di quando eri bambina in una Napoli d’oro con i vicini di casa dal grande sorriso, l’odore del caffè a tutte le ore ed i bambini in strada a correre felici inebriati dalla loro stessa giovinezza. Qualcosa ci unisce in questo strano viaggio chiamato vita, forse il sapore dei babà, forse i colori sui quadri di Monet, forse quel lontano suono di vento, o più semplicemente ti ho solo immaginata ieri Anna, stanca ma felice, dagli occhi celesti, la statura piccola, l’insicurezza di una bambina intelligente e la sensibilità di una donna ormai sola. Chissà se hai mai cucinato il ragù e chissà se qualche volta in quei giorni bui, hai mai sentito il bisogno di piangere mentre preparavi quel gustoso sugo, sapendo quanto fosse sciocca l’umanità ad odiarsi anziché sostenersi gli uni con gli altri, siamo donne che guardano il mondo cambiare anche di notte, quando la luna è già alta e qualcuno sussurra ancora le favole ed il mondo, pazza, si mette a girare all’incontrario spaventandoci, però è proprio in questi momenti, Anna, che mi piace immaginarti elegante ed allegra, al sicuro nella tua casa, in questa casa lontana-lontana dalla tecnologia. Anche oggi, Anna, altre bombe esplodono lungo i meridiani profanati del nostro pianeta e nonostante tutto, altri santi nascono ancora, tra riti religiosi e miti ormai perduti. Ho visto la luce baciarti il lato sinistro del volto, mentre eri affacciata alla finestra della cucina, quella piccola finestra nella quale solo un angolo di cielo vi è incorniciato, tu ferma, il cielo fermo, la luce ferma, il vento fermo ed il canto del silenzio, danzava melodioso e lunare con lo stesso Mi bemolle appartenuto a Chopin. Sai Anna è molto difficile oggi, in questo oggi di puro caos, poter amare e sognare ancora quegli anni educati, con i cappellini alla ¾ , i pic-nic nel parco, le lezioni di portamento e balla grafia, anni più etici e meno isterici rispetto a questi nostri, a questi dove tutto è sopravvivenza… credo proprio che siamo ancora in guerra ma non lo sappiamo, o peggio ancora, non ci facciamo più caso, ma tu segui quel suggerimento che Chaplin ci ha regalato ne Il grande dittatore: “…Guarda in alto, Hannah. Le nuvole si diradano, comincia a splendere il sole. Prima o poi usciremo dall'oscurità verso la luce e vivremo in un mondo nuovo, un mondo più buono, in cui gli uomini si solleveranno al di sopra della loro avidità, del loro odio, della loro brutalità. Guarda in alto, Hannah. L'animo umano troverà le sue ali e finalmente comincerà a volare, a volare sull'arcobaleno verso la luce della speranza, verso il futuro, il glorioso futuro che appartiene a te, a me, a tutti noi. Guarda in alto, Hannah, lassù... “ Mi chiedo, finiranno mai queste lunghe attese? Sono esattamente qui, come ieri che aspetto, aspetto di parlare con il dottore, lo stesso che ti ha mandata a casa con un grosso e fiero sorriso napoletano. Ormai sono troppo stanca degli ospedali, dell’odore triste delle corsie, del suono acido e sordo lungo i corridoi però devo ammettere che se non fosse stato per questo ospedale forse, non ti avrei mai conosciuta, o forse, non ti avrei mai immaginata in casa, questa casa sacra con la carta da parati che ti appartiene, che appartiene a quei lontani giorni di festa con tuo marito seduto affascinante sulla poltrona di velluto rosso, dove ora ci sei tu, solo tu seduta su quella comoda poltrona sola, mentre indossi quei ricordi caldi e la sua giacca da camera ormai fredda. Solo ora mi domando perché ti chiami Anna, come l’Anna del diario o come l’altra quella de “O surdato nnamorato”, l’Anna con gli occhi grandi e le occhiaie profonde, dal sorriso sincero tanto amata anche da Eduardo, l’Anna “dalle mani che parlano”. Anche lei ha riso e pianto, il vostro sorriso aveva qualcosa di simile, ma il suo pianto non era discreto come il tuo, no, lei lo ha saputo regalare al mondo, così struggente e colmo d’amara tristezza adesso congelato i quei film che hanno raccontato la nostra storia, la storia di un’Italia in bianco e nero. Dimmi, perché ti chiami Anna proprio come lei?

Iolanda La Carrubba

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