giovedì 1 agosto 2013

(esca) Video: Zio B. Alessandro Benvenuti


(esca)video: Zapping Tra web e cultura




Docu-film di Iolanda La Carrubba



Intervengono: Domenico Donatone e Desirèe Massaroni

(esca)Video: La sesta vocale



Progetto letterario- Plinio Perilli
Regia e montaggio- Iolanda La Carrubba
Con- Nina Maroccolo
E la partecipazione straordinaria di- Fabio Morìci
Musiche originali- Gianni Marok Maroccolo
Anno- 2012
In selezione ufficiale all'ottavo Directors Lounge di Berlino

Vacancy: Sarah Panatta "recinzione"


I “pallini” della critica, facciamo ‘na “recinzione”

Di sarah panatta

Come scrivi, non che cosa (notare come il “che” stia svanendo non solo dalle idee, ma anche dallo scritto quanto dal parlato, morte annunciata dell’interrogativa indiretta, sintomo psico-sociale di un’era che vuole ignorare la sostanza quindi la responsabilità del proprio “discorso”? Ma questo è un altro pallino).


Per chi scrivi. Non perché. Quanto scrivi, non quando e se. La critica, la militanza, il world wide web…l’arme e l’amor, poco cortese, di chi spulcia tra gli inganni e non predilige la classificazione per pallini, stelline, comandamenti, ammucchiamenti, emoticon, pollici, polveri, di stelle.

La critica, cronaca di una prassi di impall-inazione seriale. Mestiere feudale edificato su giudizi autoreferenziali e sfide di stile e di audience misurate dalla corte dei followers. Accade. Si fa norma, il web lo sistematizza. Gianni Canova e colleghi1 riflettono ad esempio con onestà intellettuale al riguardo. In realtà in vari gabinetti letterati, ormai soprattutto fortini autoriali on-line, si tenta ciclicamente: critica, cui prodest, o dove stiamo andando, o quale futuro, etc. Un battesimo, una prova di autocoscienza, un esercizio di retrospezione. Che non approda ad agnizioni, se non ad ammissioni a tempo drammaticamente determinato.

Eppure tanto cinguettio, esaurito e rivomitato, riassorbito e riprodotto, tra riviste, siti, blog e social, consente sì periodico monitoraggio, ma. Ma la critica non critica. Assuefatta alla logica binaria del Mia piace/ Non mi piace. Non stabilisce snodi per il dialogo, non apre dubbi performativi, non (si) ferisce, non agisce sulla superficie del mondo. La solletica e si solletica. Non evita di emularsi e svendersi, proteggersi, adularsi, nascondersi (nel passatismo e nel passato futuribile). La critica si impallina. Non se ne esce. Se non con nuove arme e nuovo amor.

Come dice Johnny Palomba2, luminare del sarcasmo botta e risposta, partendo dalle basi. La recensione, o meglio la “recinzione”. Per fare davvero una buona “recinzione” e non una recensione, strappata ad una cartella stampa distribuita in migliaia di copie, “bisogna avecce veramente lo spirito der combattente vero”, avere una visuale “de sguincio”.

O si finisce come il compianto parente. “Un giorno micuggino doveva scrive na recinzione su come se fa na recinzione e cioè praticamente na recinzione de na recinzione. Nun è riuscito più a uscì”.








1 Da 8 1/2 . Numeri, visioni e prospettive del cinema italiano. Rivista mensile, luglio 2013, direttore editoriale Gianni Canova.

2  Vedi nota 1.

Vacancy: Sergio D'Amaro


Dai Beatles a “Baarìa”. Quel che resta della Baby Boom Generation

di Sergio D’Amaro

  Guardando il film Baarìa di Giuseppe Tornatore, sono tornati alla memoria molti altri film che si erano andati sedimentando col tempo. Pellicole non solo di celluloide, ma immagini di un universo che pareva abolito nel lungo processo di cancellazione delle forme di vita. Una storia di paesi che avevano respirato all’ombra della storia e all’interno di una geografia meridionale assorta nei suoi ritardi e nei suoi arcaismi. Permaneva, nei fotogrammi di Tornatore, un’indimenticabile atmosfera mediterranea piena di richiami magici e di una vitalità primitiva. L’origine delle nostre generazioni stava in quel respiro astorico, in quell’universo rinchiuso in un rigido sistema neofeudale. Erano immagini e richiami e paesaggi che avevamo imparato a conoscere già allo schiudersi della prima infanzia e che avremmo poi riconosciuto come assolutamente necessari per costruire una visione della ‘provincia’, sentita volta a volta come isola, periferia, margine, utopia, maledizione.

   Prima che venisse tutto il resto del Novecento, quei fotogrammi di Baarìa (in realtà rubati a set nordafricani) identificavano rapidamente il luogo che ci aveva illusi della sua eternità. Lì la storia e l’invito ad un qualunque grado di maturità sembravano del tutto inutili, del tutto indifferenti. La sensazione era che il mondo e la storia fossero rimasti fissati ad un orologio senza lancette, ad un orologio che si era rotto nella catastrofe della Seconda guerra mondiale. Si ricominciava da capo, questa era la sensazione: e si ricapitolavano, per questa via, i successivi processi che avrebbero condotto all’affermazione della civiltà agraria e della civiltà industriale.

   Questa condizione pre-storica era la nostra più vera provincia: era una provincia così interiorizzata da risultare terreno germinale per lo sviluppo di una qualsiasi vita, di un qualsiasi pensiero. Dalla pianura sterminata di questa provincia decollerà come un aereo il protagonista-bambino di Tornatore, volando al di sopra del suo paese e proiettandosi verso il suo futuro. Che immagine sublime di poetica prefigurazione del destino e, insieme, di slancio della volontà eticamente sostenuta! La sensibilità di quel bambino resta marchiata dal paesaggio fisico e culturale della provincia: ne sono componenti essenziali i sapori della campagna, i sopori della controra, le storie di guerra, le leggende brigantesche e religiose, i ricordi di famiglia, i sentori di emigrazione, le passioni politiche, le botteghe degli artigiani, le donne che portano pane e pizza ai forni. È un mondo apparentemente immutato, ma che ha probabilmente già toccato la tela ruvida del jeans o ha visto incuriosito il passaggio di una jeep, o assaggiato con un sorriso imbarazzato il gusto elastico del chewing gum. È un mondo che sta per cambiare, chiamato com’è ad incontrarsi e ad integrarsi con una realtà più larga, dinamica, veloce. È anche da questo momento che il paese diventa più esplicitamente una frontiera: lo è stato, certo, già all’appuntamento fatale con l’emigrazione tra ‘800 e ‘900, ma ora è diverso. Non è solo più una frontiera geografica che si muove ed entra in tensione, ma è una frontiera culturale che interagisce con territori storici che si moltiplicano e rendono plurali gli scambi e più urgente la decisione se conservare o distruggere.

   Il 1960, quando il nostro bambino è diventato un adolescente, irrompe con le Olimpiadi di Roma. I paesi del Sud e la nostra provincia hanno fatto un piccolo passo in più. La televisione, il registratore, la macchina fotografica certificano un nuovo Italiano. Quanto è ancora antico e quanto è ormai moderno sulla frontiera di una nuova età? In questi anni decisivi, scanditi dalla corsa non solo olimpica del boom, gli anziani lasciano ai più giovani il messaggio di una generazione. I baby boomers (s’intendono qui i nati nel primo ventennio del secondo dopoguerra) non possono deludere l’eredità che gli viene offerta e accettano di difendere come un viatico ciò che la cultura mediterranea ha di più prezioso: l’antico mondo contadino e l’apertura dei confini allo sconfinato scenario di un mare di incroci e di scambi.

   La memoria popolare si sposa, in simbiosi orizzontale, alla liberazione del sogno beat. Una “Baarìa” resiste in fondo all’anima, ma c’è insieme, ormai, il gusto della contestazione, il bisogno di una nuova cultura, la critica e la ribellione anticonformistica. Si diffonde una frenesia sperimentale ed insieme si cerca di salvare ogni più piccola traccia di un’umanità che perde voce. È la prima generazione, quella dei Baby Boomers, a creare archivi militanti, a registrare voci vive, a documentare ogni più piccolo retaggio di questo mondo ormai alieno, alternativo e marginale. La storia si inginocchia ad ascoltare gli offesi, i piccoli, gli esclusi. Così come accadde nell’immediato dopoguerra con le molteplici edizioni di memorie e di testimonianze, di scampati alla morte e a pericoli d’ogni genere, così dagli anni Sessanta in poi gli studiosi di storia e di antropologia, i giornalisti, i ricercatori a vario titolo registrano un flusso abbondante di esistenze che si raccontano, si lamentano, ricordano, esprimono speranze e rammarichi. È l’antico mondo popolare che scioglie il suo saluto alla lunga permanenza nella storia d’Italia. Il Sud, del resto, si “nordizza”, accoglie supermercati e autostrade, si converte al progresso inarrestabile della globalizzazione.

   È questo scenario che si fissa con più prepotenza nella mente della Baby Boom Generation, è questo passaggio epocale da una civiltà all’altra che si fa sostanza di memoria per ogni ulteriore teatro di realtà. Il punto nodale è che esiste un prima e un dopo della modernità, un’infanzia e una maturità di scenari, una realtà e poi un’altra che fanno fatica ad integrarsi, anzi confliggono, si confrontano e si elidono, si ignorano e si criticano. Di qui nasce una coscienza dell’opposizione, una coscienza della resistenza. La cultura popolare, il mondo contadino conservano un passo naturale, conservano e difendono la dimensione della lentezza, la sfera di ciò che è non-razionale, non-borghese, non-industriale, non-artificiale, non-monocentrico.

   Tutto questo finisce per assumere un carattere rivoluzionario e finisce per essere agglutinato alla cultura della contestazione anticapitalistica e anticonsumistica che arriva dagli Stati Uniti e si diffonde rapidamente soprattutto in Italia. Freud e Marcuse si ritrovano saldati a Scotellaro e a de Martino, Marx e Gramsci risultano perfettamente d’accordo con le tendenze ribellistiche del rock e del beat. Baby Boom Generation significa, in modo originale, questo: cioè la sintesi inaudita di elementi critici che rifiutano facili omologazioni, la saldatura urgente di passato e presente, l’altrettanto esigente volontà di sperimentare stili e teorie. La forza fondativa di essa sta nel mix straordinario di questo brodo di coltura, inedita fonte energetica composta di cultura secolare e di cultura alternativa, di capacità critica e di utopia sedotta e liberata attraverso melodie amplificate ed elettrizzanti. La Baby Boom Generation finalmente è in piena creatività, si plasma nell’arte pop e informale, si fortifica nel cinema e nella politica, è pronta a scrivere romanzi e poesie. Il passaggio epocale da una civiltà all’altra resta il nucleo forte della coscienza, il nodo essenziale di ogni mitologia: seduce la natura, ma seducono anche i Beatles, attrae il canto amaro di Scotellaro, ma attraggono anche le mode provocatorie e il liberatorio juke-box.

   Forti di questo viatico, giovani e meno giovani della Baby Boom Generation si apprestarono ad affrontare gli anni successivi. In questo riuscirono a portare con sé il senso di una conquista ineguagliabile, il sicuro possesso di un piccolo tesoro di esperienze capaci di tener accesi ragione e sentimento, qualunque cosa potesse avvenire in seguito.

   C’è, poi, una rottura, un vuoto insopportabile, una spinta nichilistica che sconvolse quella generazione. Fu il terrorismo e la lotta armata, la degenerazione ideologica e il fanatismo politico: ma questa malattia, questo sogno trasformato in incubo, fu solo di una minoranza. Per molti, per i più, gli anni Settanta furono, invece, anni di splendida giovinezza, di piena realizzazione di valori e di convinzioni, di maturazione intellettuale e di fervida operosità. Per chi restò al Sud, non cessò mai un richiamo morale almeno a conoscere meglio queste terre, a sondare più in profondità la loro cultura. Tutto questo era la diretta e naturale conseguenza del decennio precedente, come a ribadire una mentalità che stava semplicemente agendo in un contesto diverso, in una situazione senz’altro cambiata.

   Rivediamo quegli anni che, per altri, furono feroci. Nella distanza del tempo arrivano soltanto echi, flash, immagini. Raccogliamo i ricordi, come foto ancora vive sulle pareti di una galleria sentimentale: siamo noi e non più noi, e tutti gli altri che non conoscemmo e a cui non parlammo, con i quali facemmo un lungo tratto di strada, varcando inconsapevolmente insieme la soglia di età diverse, che dai padri si proiettavano sui figli, confondendosi poi nel più stretto giro di classi anagrafiche ravvicinate.

   Rispetto a quella identificata come Baby Boom Generation, la generazione dei nati nei primi anni Settanta incontrerà un mondo già totalmente trasformato all’ingresso nell’adolescenza: tramonto delle grandi ideologie, fine della Prima Repubblica e del comunismo, televisioni private e arrembante edonismo e individualismo, le classi popolari - la cultura popolare - ormai confuse con le classi medie e la cultura piccolo-borghese. Queste nuove generazioni saranno immerse fino al collo nel neo-razionalismo borghese, in una globalizzazione spinta, in una omologazione morbida, in una televisizzazione onnivora e in una crescente nevrosi comunicativa, che sfocerà nel telefonino e nel social network. Esse non conosceranno un prima e un poi, non proveranno vere passioni politiche, non godranno di una vera e originale cultura giovanile. Il loro destino è stato quello di provare a riguadagnare l’autenticità senza davvero riuscirci. Non hanno avuto né una Baarìa, né i Beatles, hanno dovuto rovistare tra ciò che restava del grande magazzino di utopie, di miti e di progetti a cui avevano attinto con facilità finanche prodiga quelli della generazione precedente.

   In letteratura ne abbiamo saggiato gli esiti. Oggi come oggi si avverte una vera e propria rottura storica, un cambio di marcia del mondo, un diffuso senso di apocalitticità. Il quasi ventennio berlusconiano ha plasmato ulteriormente lo stile di un’età, facendole assumere i connotati da Basso Impero. Nel 1994 dominava nelle classifiche un titolo che poi ha fatto scuola, ammiccando ad imperativi e ottativi, Va’ dove ti porta il cuore, con Susanna Tamaro impegnata ad ascoltare la voce della nonna e con l’implicito invito dunque ad andare controcorrente, a riflettere probabilmente sulla memoria e sulla storia. Nel 1993 esplodevano le bombe mafiose di Roma e di Firenze, dopo quasi vent’anni, con Gomorra di Saviano è sembrato che il tempo avesse fermato le sue lancette e che l’attenzione fosse ricaduta fatalmente sullo stesso fenomeno. Ed è successo anche nella saggistica, dove alle caste tanto vituperate della Prima Repubblica si sono aggiunte quelle descritte nel libro di Stella e Rizzo. La letteratura sembra diventata un allarme etico, le fortune editoriali maggiori vanno a Camilleri e a Carofiglio, che sanno intrecciare trame all’altezza di tempi tanto bui. Anche la critica dibatte, è allarmata, e giustamente i migliori in campo – Fofi, Berardinelli, Cordelli, La Porta, Ferroni, Luperini, Cortellessa, Onofri e qualche altro – non si stancano di denunciare il degrado e di lanciare ciambelle di salvataggio.

   Dove è arrivato l’antico bambino che abbiamo lasciato mentre volava sui tetti di Baarìa? Dove è approdato il suo sogno di liberazione, di grandezza, di felicità, di bellezza? Si è incarnato ora, forse, in quel ragazzo che prende il treno e saluta il padre dal finestrino andando a studiare al nord? Forse questa è l’immagine che ancora conserviamo di generazioni che si sono avvicendate in questi ultimi cinquant’anni. Padri e figli, fratelli maggiori e fratelli minori, donne e ragazze, che hanno seguito la scia del Novecento e oggi si ritrovano a salvare ancora una volta la storia. Lo abbiamo notato con Canale Mussolini di Antonio Pennacchi, con Accabadora di Michela Murgia, con Acciaio di Silvia Avallone (e potremmo e dovremmo sospettare altre buone o ottime opere non emerse in classifica): di nuovo una letteratura che si impegna sulla memoria e sulla lingua, si riconosce uno stile e una dignità, osa credere che un nuovo giorno non nasca soltanto per illuminare le miserie umane.

Vacancy: Sarah Panatta


Fiabeschi. “Precariatidi” secondo Pazienza e Mazzotta

Di sarah panatta

Vagabondare (ri)conoscendosi. O riconoscere il mero vagabondaggio. L’uomo sente sempre, presto o tardi, la propria precarietà. Ma spesso non “si” chiede. Né immagina di interrogarsi se essa sia mezzo inevitabile, connaturato, piuttosto che stato sovrastrutturale-da-civilizzazione. O se la meta sia il Sé, se lo scopo sia accalappiare, certificare e poi abbandonare o recuperare le radici e insieme ammettere le volontà multiple e fallimentari del proprio Ego.

Fiabeschi è un laureando senza scadenza e senza sede. A quarant’anni si è posto molte domande. Al di sopra della media dei coetanei titubanti faccendieri della confusione, delle relazioni usa e getta, del cinismo preincartato. Tra una canna e l’altra, nello spazio minuscolo sebbene saturo del ritorno (il paesino natale, budello onirico incastrato nel passato, Cuculicchio), Fiabeschi arriva a sentirsi, con una pienezza diversa, non totale, ma nuova. Si dice, anzi ci dice che “la casa è dentro di noi”. Eppure il concetto ancora (gli) sfugge. Sguardo in primissimo piano che erompe trasversale sulla camera, fuori dalla camera, aspirando, sardonica pulsione brechtiana, direttamente al “noi”. Il noi che guarda, digrigna e carrella oltre.

Ricompare Enrico Fiabeschi, l’alias del giovane mancato/mancante della modernità, figura aquilina e sfuggente, disegnata da Andrea Pazienza e riportata sul grande schermo, dopo il fedele PAZ! dall’interprete, qui anche regista e sceneggiatore, Max Mazzotta. Fiabeschi torna a casa, in uscita il 22 agosto. Mazzotta, vero corpo del racconto, parco di semplici parole, rapisce il flaneur spigoloso, saccente ed esilarante di Pazienza e lo conduce, cinico ma tollerante e malleabile, nel bozzolo immortalato della casa-madre. Avamposto della provincia italiota sonnacchiosa, affogata in un presente senza connotati riconoscibili. Un presente desertificato, si dice, da internet e dalle manie correlate. Il progresso e le sue implicazioni, sociali e tecnologiche, sono immanenti e invisibili, se non per gli effetti indiretti. L’alienazione dell’Ego, non solo dalla piazza. I soggetti sembrano drogati dal regime delle convenienze, appagati da una solidarietà spicciola, galleggianti su traiettorie prescritte. Nessuno osa chieder-si. Fiabeschi svetta. Inciampa, cade, apre e chiude porte. Lui sente quindi chiede. Lui concettualizza, e in fondo spera.

Di poter abitare un mondo precario, che certo, lo sa, non possiederà mai. Abbracciando un amore infatti muto, ma non sordo. Fiabesca ironia, Fiabeschi.


Fiabeschi torna a casa. Regia di Max Mazzotta. Con Max Mazzotta, Lunetta Savino, Ninetto Davoli, Rita Montes, Deniz Ozdogan, Diego Verdegiglio, Alessandro Castriota Scanderberg, Graziella Spadafora, Vittorio Loreto, Ronny Morena, Paolo Calabresi, Giampaolo Morelli. Soggetto Max Mazzotta. Sceneggiatura Max Mazzotta, Giulia Louise Steigerwalt. Musica Max Mazzotta. Direttore fotografia Gianfilippo Corticelli. Montaggio Gino Bartolini. Costumi Mary Montalto. Scenografia Gianluca Salamone. Aiuto regia e casting Nicola Scorza. Distribuzione Whale Pictures. Una produzione 11 marzo film. In collaborazione con Rai Cinema. Con il contributo della Calabria Film Commission per l’audiovisivo. ITA 2013. Durata 90’. Dal 22 agosto nelle sale.

(esca)Recensione: Domenico Donatone "Chiara Mutti"


Chiara Mutti, un estro in miniatura!

di Domenico Donatone

Nulla è più inedito di ciò che non si è mai letto. Questo principio consente ai critici di muoversi con una libertà di giudizio che non deve necessariamente attenersi alla “novità” libraria, al testo appena licenziato, oppure finalmente recensito. Ciò accade perché esistono nell’esercizio critico delle ragioni che la critica a volte non comprende, così come Pascal diceva dell’amore. Dinanzi a ciò che è finito, spesso si può preferire il bozzetto o addirittura il non-finito, l’inedito che, appunto, non si è mai letto pur essendo stato pubblicato. La novità è piuttosto questo. Dinanzi a valanghe di libri e di pubblicazioni spesso disordinate, si può preferire la pagina vergine, non ancora imbastita per il “bagno di pubblico”, oppure un testo non ancora pronto per affrontare l’abbraccio della critica. Nel caso specifico, è capitato di preferire l’inedito all’edito, il preliminare all’amplesso, il privato al pubblico. A dare conferma di ciò sono alcuni testi di Chiara Mutti. Chiara Mutti è una poetessa silenziosa, riservata, disponibile al dialogo come ragione selettiva di confronto. Questa poetessa porta con sé, direi quasi sul viso, un’impronta cinquecentesca, arcaica, un’atmosfera che ricorda una clausura che non vede l’ora di liberarsi, di sbarazzarsi della vita per trovare altra vita. All’attivo Chiara Mutti ha un’opera pubblicata per i tipi Lepisma (Roma, 2012, € 13.00), dal titolo «La fanciulla muta», con prefazione di Plinio Perilli. Di quest’opera si può apprezzare di più ciò che è esterno al testo e non ciò che è interno ad esso, perché il testo è segnato da un’acerbità che ha bisogno di smarcarsi dalla riflessione basica e dalla formula del pensiero ordinario: «È il dolore della solitudine | uno stesso dolore per tutti || un dolore a tonfo sordo | che scuote il cuore || rosso e azzurro di vene | gonfio che trattiene | si accartoccia e stride || come un freno a mano | tirato | nell’universo del mondo». Poi incontro di persona Chiara Mutti e giungono i suoi inediti. Inediti assoluti nella loro duplice forza. Mai letti, quindi stimolanti, e mai pubblicati, quindi lontani del chiacchiericcio, dalla deformità del peso del giudizio. I testi di Chiara Mutti sono giunti come fogli che esprimono una maturazione più articolata, benché ugualmente intrisa, in molti passaggi semantici, di espressioni che mettono in mostra un’ansia così prediletta, evidentemente dalla poetessa, di dire tutto e subito, di scalpitare a volte senza palpiti. In questi inediti, però, Chiara Mutti respira! Prende fiato, impara a stare attenta, stabilisce priorità del ritmo che ne La fanciulla muta sono discontinue, così che si può finalmente decretare che la poesia fa danni solo quando chi scrive non ha capito cos’è la poesia. La poesia è concetti. Essa avanza per spiegazioni che hanno il privilegio di essere detti con la formula dei versi, che rimangono tali fino a quando definiscono uno spazio di riflessione maggiormente ben fatto e preciso. Dinanzi ai versi “inediti” di Chiara Mutti si respira qualcosa di più fermo. C’è un battito e un fremito sia lessicale che semantico che si mostra così come nella Stanza della Segnatura Raffaello ha dipinto la sostanza della poesia: il cartiglio recita in latino NVMINUR AFFLATUR, ispirato da Dio, dal fiato. La poesia è fiato che nomina le cose, che definisce gli spazi del pensiero. Chiara Mutti riesce a cogliere questa priorità. I suoi testi inediti sono prove che la forza e la tensione emotiva di nomi che determinano entusiasmo e tormento, come Achmatova, Berberova, Dickinson, Cvetaeva, Plath, Spaziani, Leto, Canto, Merini, Rosselli e Insana, possono essere conservati anche nelle piccole dimensioni, come in un concentrato di energie oppure in un prontuario poetico. Di questo concentrato Chiara Mutti si fa portavoce. Per questo mi viene naturalmente da pensare ad un estro in miniatura, ad una infatuazione per la poesia così come ad una febbre che determina comunque agitazione degna di deferenza. Quella di Chiara Mutti è una ricerca che si complica e si semplifica, che sale e scende dall’impalcatura già ben eretta dei suoi referenti poetici.

Costellazioni

I

Eravamo sulle labbra della luna

un soffio di polvere bianca,

lische di salmoni dorati

risaliti alla corrente.

Il coro d’inermi fanciulli

emise qualche nota stonata,

un’uggia di rauchi conati.


Duro il sangue pulsò

corrompendo ogni desiderio sacro:

tracciavamo i punti della celeste cometa

una domanda una domanda una domanda


nascevamo sopraggiungendo al giorno

tutto il resto sembrava sera

e la notte era già il tempo del dopo.


[…]


V

Perché mai questa scia

di detriti alla deriva?

Questo nulla che ci attrae

più dell’atomo scomposto?


Cambierò la tua fede

in un carro,

un pavone, un cavallo,

una capra bianca.

Puoi frenare il volo del cigno?

Incalzare la risposta del corvo?

Domani, domani.


Forse la materia è madre

strappata agli abissi,

per questo siano nati.

Forse non siamo che materia.


VI

Oh! Come tutto muove

e muta e segue

solo noi sembriamo

sempre in atto di finire

sempre con vani occhi

ci approssimiamo alla vista


pure un giorno dura,

ogni sole, un giorno

e una notte, una notte

basta

per tutte le stelle.

(esca)Short: Iolanda La Carrubba


Cruelity Free

di Iolanda La Carrubba


“La grandezza di una nazione e il suo progresso morale si possono giudicare dal modo in cui tratta gli animali” (Gandhi).



Purtroppo molte persone per scarso approfondimento sul tema dei diritti degli animali, contribuiscono alla sofferenza e alla morte agonizzante di molte specie. Ad oggi a causa di: allevamenti intensivi, vivisezione, circhi, parchi zoologici, abbigliamento, cosmetici etc. gli animali vengono torturati per il puro appagamento delle necessità umane, comprese quelle di largo consumo che contribuiscono non solo alla sofferenza di esseri viventi, ma propagano la piaga dell'inquinamento.

Il 15 ottobre del 1977 presso la sede dell'Unesco a Parigi, è stata proclamata la D.U.D.A. (dichiarazione universale dei diritti dell'animale) di cui all'articolo 1:




Ancora è lunga la strada per cercare di uguagliare la specie umana alla specie animale, per far ciò si dovrebbe iniziare a comprendere che l'animale non è un oggetto ma bensì una forma di vita complessa e ricettiva alla sofferenza tanto quanto all'amore.

Col tempo sono nate molte associazioni che si fanno portavoce attivo per la protezione dei diritti degli animali, tra le quali: LAV (lega anti vivisezione), WWF (world wide fund for nature), LIPU (lega italiana protezione uccelli), Greenpeace, etc.

Sensibilizzarsi nei confronti di questo tema significa anche essere disposti a cambiare determinate abitudini, senza però necessariamente dover rinunciare al proprio stile di vita, tuttavia adattarlo ad un vivere più etico ed empatico con le altre forme di vita.


“Il compito più alto di un uomo è sottrarre gli animali alla crudeltà” (Emile Zola).  


(esca)Racconto: Chiara Mutti


Le scarpe





Era tornata. Così com’era andata, era tornata. Ci aveva abbandonato nell’attesa, ci sono vuoti dentro e terre di nessuno e buchi neri che non voglio ricordare, solo un’immagine di buste della spesa e di una scatola di scarpe; del resto non importa cosa, quelle scarpe erano belle, le più belle che potessi avere.

Deve essere stato mentre le provavo, o forse poco prima…ma lei, la mamma, era già lì,  temevo la sua comparsa come si teme il verdetto per una condanna ingiusta. Per molte notti mi ero sforzata di rimanere sveglia, vegliavo quella verità, qualcosa che prima avevo già intuito ma che non ero stata in grado di capire. Ora la mia paura e suoi fantasmi si chiamavano per nome e quel nome mi teneva sveglia.

Quella mattina, la mamma, rivendicava i suoi diritti su di lei: doveva assolvere il suo compito di corpo-pentacolo per le sue linee magiche: era necessario voltarsi e lasciarla fare, solo questo, lasciarla fare.

Le sue formule ricadevano sulla tua schiena come una tempesta: Dio, la Madonna, il bambino Gesù ti segnavano la schiena per scacciare il diavolo dalla sua testa. Era una strana testa, la sua, piena di esorcismi, di idee assurde di cui mi vergognavo e della cui vergogna mi sentivo in colpa. I suoi deliqui erano incubi lontani nella notte, li calpestavo in prati incolti lungo periferie che la città stava ingoiando nel cemento. Roma si abbarbicava sulle sue pendici dilatando il ventre come una gatta incinta…i suoi figli, sempre più numerosi, occupavano cellette di cemento accatastate in verticale, anime nervose e senza occhi. Lo sguardo, interrompendosi sulle finestre frantumate nell’occupazione, fissava notti più inquietanti; notti trascorse sull’asfalto di strade appena nate che sembravano voler esplodere nel verde e si arrestavano nel niente. 

Mi assaliva, allora, uno smarrimento un senso di desolazione a cui tentavo di sottrarmi fuggendo le sue lacrime, giocavo a testa bassa con il colore del cappotto che si trasfigurava sotto lunghe file di lampioni dal colore freddo, esausto della notte.

Alle volte si arrivava fino a San Lorenzo che immoto troneggiava pallido a lato della piazza, smarrito nel suo straniamento alla città. Mi regalava un’emozione costellata di visioni, di luci colorate appese al cielo, così vivide che ancora splendono nel cuore dei ricordi o dell’alone tremolante dei lumini del Verano che costeggiavamo ritornando a casa. Mi attraevano come falena ipnotizzata dalla luce, verso un mistero che non conoscevo ed il cui nome, a quell’età, non si era autorizzati a pronunciare.  Potevo abbracciarli tutti, in un solo colpo, dall’alto delle  tue spalle grandi di sorella - le stesse spalle che ti rifiutavi di voltare - Perché non ti voltasti, perché? Con il tuo odio e la tua rabbia la sfidavi, forse volevi, forse dovevi pagare il tuo tributo di capelli e grida e noi una moneta tintinnante di paura. I tuoi capelli, lunghi e neri, si contorcevano nella violenza della lotta come le serpi di Medusa fino a quando sfinite, a terra, si arrendevano, a ciocche. -

Io ammutolivo in loro il mio dolore, percepivo il dolore nelle mie radici.  Fu quella volta.

Mia sorella riuscì a divincolarsi, aprì la porta e corse fuori, invano…io e mio fratello, come due uccelli senza nido, non sapevamo più dove posarci;  sul pianerottolo di casa il tempo si era scisso congelando l’attimo assieme alle mie gambe mentre le loro grida soffiavano verso di noi un’aria calda - come di nuvola gonfia di pioggia trattenuta. La nostra anima incapace di fluttuare verso cariche opposte, ci impediva qualsiasi movimento e io attendevo, prigioniera di quell’atmosfera stupefatta, che il volto pallido di mio fratello muovesse una decisione anche per me.

Poi fu scroscio improvviso di temporale, cieco di lampi e tuoni, a scaraventarci in corsa convulsa per le scale. Con un ultimo strattone mia sorella si era liberata, io, dimenavo i piedi e correvo a vuoto ubbidendo ciecamente al loro appello, senza sentire il male della loro stretta; le scale di marmo scorrevano sotto i miei occhi come fantocci dietro un finestrino, in una fissità di bianco e vuoto  /  bianco.

Quanto ci rincorresti madre? Cosa agitava il braccio alzato per colpire? Mi sono sempre chiesta quale fantasma rincorrevi nella corsa, quale mondo separato brandisse la tua arma, io non ti vidi eppure ti sentii fino nel cuore che pulsava sangue.

Il cortile, ultimo brandello delle mie prigioni, ci accoglieva nel suo ammonimento di rimprovero al silenzio. Tutta l’umana umanità era assente, stretta dietro le porte chiuse nel rifiuto, che condanna e teme.

A volte torno a chiedermi se sarei morta; non so, credo che all’oggi nulla importi: sono sopravvissuta. Ho steso la coperta del silenzio sulle notti che accompagnano i miei giorni, notti di denti consumati dentro un sogno che non posso ricordare. Tutto si è rimpicciolito, come un abito lavato male che non riesce più a passare dalle spalle; una dicotomia d’immagine che torna. Mentre l’osservo, da lontano, mi sento Alice nel paese delle meraviglie che tenta di rincorrere il suo Bianco-vuoto. Appartate e un po’ nascoste, nel bianco, ancora bianco sudario dei ricordi le mie scarpe nuove - le scarpe perdute, abbandonate nella stanza antica della mia memoria - conservano il loro amore sconosciuto. Lo perpetuano nella promessa.



Chiara Mutti

(esca)Poesia: Roberto Piperno

L’acqua che accresce
 
cresce quest’anno il calore celeste

con la traspirazione della terra più cupa

mondando ancora il cielo

di prossime onde di pioggia

e non risale il verde che nutre

contro il deserto che avanza

e ci sovrasta in ogni direzione

senza posa



e in questo giorno di giugno

quando il giorno e la notte

contano gli stessi passi

scende più basso il Tevere

che dette sopravvivenza a Romolo con Remo

per far nascere Roma dall’acqua

come sulla riva il Nilo sostenne Mosè

per una perigliosa crescita

di un respiro nuovo nel mondo



ed io discendo le colline

che abBracciano il collo del lago

dove le antiche navi in silenzio rimpiangono

le vele stese dalle carezze del vento

per risalire da costa a costa

ad ammirare l’occhio profondo del vulcano

che ancora accoglie pesci e nutre piante

con l’acqua piena di volti e di ricordi



ora il sole al tramonto stropiccia altre parole

e promette l’attesa dell’acqua che accresce

con la futura pioggia

per allargare ancora il respiro della vita.
Roberto Piperno

(esca)Poesia: Marco Palladini


Pensieri…  sfiniti

Di Marco Palladini


“Noi siamo infinito” declama nel poster

un trio di ragazzi per nulla leopardiani

e dalle facce discretamente patibolari

(che il santo boia non li molli).

Noi siamo cioè la non fine del finito,

lo sfinito che transfinisce

e concupisce i corpi giovani, belli e maltrattati

di un film delirato pericolosamente


Ché il filosofo pop e l’ingegnere pulp

qua si stringono la mano ma non firmano

patti di desistenza con i canzonettari seriosi

e con i clown dimolto concettosi


La ballerina di milonga mi avverte che tiene

un ritmo più veloce di quella di tango

Le signore intanto si trastullano a scala quaranta

ma poi s’incartano giocando a pinnacolo


Quello che ritorna è il prof. Unrat,

la sporcizia dell’Angelo Azzurro,

sperso al mondo, perso tra le sue cosce

inguainate nelle calze nere a rete

e che sbava e lecca le sue lucide,

versicolori scarpe col tacco 12 a spillo 


Guardo i comici che si fan politici e al fondo

si scopre che non c’è più nulla da ridere…

Eppure non si diceva: una risata vi seppellirà?

E allora poi che cosa soddisferà il popolo

affinché non morda tutta questa merda?


Noi e loro e voi e tutti insieme

repleti di horror vacui ascoltiamo nella notte

i Pink Floyd a palla, il lato oscuro della luna

dopo 40 anni ancora ci fa sognare


Se gli amori ci intossicano la mente

e i non amori ci inaridiscono l’animo

cerchiamo le parole difficili, complicate,

le parole dure da comprendere

ché le soluzioni facili davvero non ci sono.


Marzo  2013

(inedita)

(esca)Poesia: Sabino Caronia


I miei amici

                   Dicono che il paese

                        dell’anima è l’assenza.

                        Io ne ho fatto esperienza

                        e ne pago le spese.

                   Dicono che l’amore

                        ha un suo linguaggio muto.

                        Io, fesso, ci ho creduto

                        e muoio di dolore.

                        Parlan d’amore fino

                        d’amore alla lontana,

                        poi cercano un pompino

dalla prima puttana.

Sabino Caronia

(esca)Poesia: Iolanda La Carrubba


Libertà


Piove

ma come al solito

è un discorso già fatto

sepolto sotto insospettabili apparenze

nelle immediate vicinanze

di un numero

costantemente d'oro.

Sciolto in acqua tiepida color di terra

il temo è scandito

secondo un meridiano interrotto

corrotto da epidemiche circostanze

che richiamano al ricatto.

Distratto

poi rimodellato il mondo dorme

sotto forme di povertà e miseria

ed un carro armato

imbruna la misera ombra del sole

sulla devastante realtà umana.

Umanità accecata dai troppi riflettori

socchiude gli occhi

attenti a voltarsi altrove

e nell'ultimo atto riflette

ma poi muore.

Come può dichiarare pace

un cuore finto di rame e rianimato

come può risuonare vero amore

su labbra sconosciute e senza meta

quando

nei cimiteri il pianto

costa un euro l'ora

quando nei mari

è il petrolio a seppellire i misteri.

Domande poste da altre menti

diventano insistenti

petulanti

l'inflazione è in aumento

annullamento di contratti

e in attesa dei consigli

per gli acquisti

piove

l'ombrello aperto

il giornale in tasca

un fiore all'occhiello

e solo vuoto nella testa.

Iolanda La Carrubba

(esca)Poesia: Edoardo Olmi



RICORDI?

c'era un argine ingrossato;

un libro di Nietzsche

e una frase di Brecht.

- <<perdere.>>

- <<odiare.>>

furono parole pendenti

per prime dalle tue di labbra

(io – per me

avrei preferito la notte

che brucia lo stomaco

bevuta d'un sorso),

ho sentito spesso la tua

presunzione = fuggire da sé stessi perché assoggettati ad altri

e ne ho ricavato febbri insonni.



 
1.2

ci sono demoni borghesi,

alito di vino e sguardo eretto

sul tuo collo

nudo –

ma io che ti ho vissuta adesso

muoio,

zoppo,

in debito di alcune sbronze.

così è il mio saluto liberato:

niente più parola e solo

carne

d'ora in poi –

vivere

scordando

di esistere.



 

 

 

 

 

 

 

 

 
mi hermano
il blu di notte

sfuoca; casermoni smuffati

dalla carta vetrata del

vento

con divisa di lato

artigliano

lune corrucciate (+ del solito

saranno epoche

ormai, che le facciamo quell'effetto

lì);

lische ritte

sui tetti a catturare

segnali radio

o TV


scricchiola

le dita sui pulsanti

preso a pugni nella

pancia | vomita

un jazz

senza spiccioli

sulla piazza dalle orecchie

collegate ancora in streaming

troppe poche stelle in cielo

ed io soltanto

fuggendo

lo rapisco

better luck

next time.



 
Edoardo Olmi
 

(esca)Poesia: Paolo Carlucci

Ahimè l 'estate

Un cane ho veduto.Randagia
stuoia d'amore, in un alveare
di voci, dormiva con un occhio
... solo,

nell'altro il sogno di un legame
antico, perduto, ora beve, cuore
sciolto, in un'urna di pioggia,
la carità di un Dio
che ciondoli regala
annuvolandosi tra le piazze.

Va la steppa dei cuori
disperdendosi
nell'azzurro orologio
dell'allegria che dispera
una sinfonia d'auto,
ahimè l'estate
Paolo Carlucci

(esca)Poesia: Daniele Coltrinari

Occasione persa
di Daniele Coltrinari
07/01/2004

Ti guardo, tu mi guardi, io ti guardo.
Le nostre occhiate ubriache, i nostri sguardi lascivi
si intrecciano nella nebbia di questo pub post moderno;
NOI non ci conosceremo MAI.
Figlio della generazione odierna, pro nipote dei fantastici
seduttori del 900’
NOI non conosceremo MAI.


È cosi’, è così perché non è la timidezza.
non è l’incapacità di agire, non è essere imbranati con
l’altro sesso.
È così perché stasera è bello, ogni sguardo reciproco è cosi
erotico
E intrigante che “fare qualcosa” rovinerebbe tutto


NOI non ci conosceremo MAI 


http://danielecoltrinari.blogspot.it/
http://www.sosteniamopereira.com/

(esca)Poesia: Anna Laura Longo


Come torrenti i volti avanzano
con quantitativi di ombre araldiche o mute.
Nell' eterogeneità delle lotte ogni sguardo è cambiato,
ogni passo è nudo ed affusolato nel mare.
Un prolungamento del suono sfiora il collo adunco,
confluendo in un cardigan,
ricercando luoghi di acerbo e vivo ristoro.
Come torrenti i volti inarcano il mondo sinuosamente.



(  sono volti dell' oggi,  di denuncia / epocale. Ci dovrebbero tuttavia  essere anche volti  ( o  schiere ) di possibili esultanze .
L' esultanza è presumibilmente lontana in questi tempi, forse il personale lavoro-impegno puo' riguardare la costruzione  di margini di  " sollievo ".  


Anna Laura Longo