sabato 1 febbraio 2014

(esca)Video-intervista: Vincenzo Salemme


(esca)Video-intervista: Cast Sapore di te un film dei fratelli Vanzina


(esca)Video-intervista: Maurizio Nichetti


(esca)Video-intervista: Catello Masullo


(esca)Recensione: Le fotografie di Amedeo Morrone


Osservare il soggetto nelle fotografie di Amedeo Morrone

di Iolanda La Carrubba


Amedeo Morrone nasce come cantautore, contemporaneamente si dedica ad una ricerca visiva composta principalmente, dal suo spirito di osservazione.

Coltiva parallelamente alla ricerca musicale, quella fotografica, riuscendo fin da subito ad effondere nel suo stile, un forte impatto visivo. Coglie con fermezza simboli e simbologie dell'oggi, coltivandone un importante coinvolgimento.
 
 

Il soggetto diventa oggetto plasmabile, multiforme, capace in qualche modo di mimetizzarsi nel contesto. Bioritmi sociali, emozionali, collettivi ma pur sempre soggettivi, movimenti karmici, in grado di trovare soluzioni metalinguistiche, con le quali abbattere le frontiere dell'ovvio.

" A volte c’è un’unica immagine la cui struttura compositiva ha un tale vigore e una tale ricchezza , il cui contenuto irradia a tal punto che al di fuori di essa questa singola immagine è in sé un’intera narrazione."
(Henri Cartier Bresson)



Percezioni tattili, istanti sfuggenti e sfocature affascinanti, coreografie passionali, aree di espressione indomite.

In questi lavori fotografici sono evidenziati gli aspetti duplici della ricerca visiva di Amedeo. Da un lato lo scatto libero, curioso, cacciatore coraggioso, dall'altro percezione esatta dell'adesso, precisione dello scatto.
 
                                       set La sesta Vocale

Infatti quello che fino ad ora era la volontà di catturare le sfumature, si trasforma e diventa necessità di precisione, per i lavori fotografici fatti su alcuni set cinematografici.

Ci sono molti fattori da analizzare costantemente e valutare in questo cammino in direzione al destino che Amedeo riesce a compire, attraversando le proprie barriere inconsce, talmente intense che sembrano costituire il presente.
 
                                          set Fratello dei cani (Pasolini e l'odore della fine)
 

Quindi l'analisi contestualmente legata all'immagine fotografica, perfora la barriera spazio-temporale, riuscendo ad osservare, l'oggi, specularmente alla sua memoria atavica.

"Ciò che la fotografia riproduce all’infinito ha avuto luogo una sola volta: essa ripete meccanicamente ciò che non potrà mai più ripetersi esistenzialmente."
(Roland Barthes).
 

(esca)intervista-Davide Cortese


IL CLOWN E IL SUO LINGUAGGIO. Intervista a Rosa Masciopinto
di Davide Cortese


Da sempre innamorato della stralunata e poetica figura del clown, ho chiesto a Rosa Masciopinto,  che è clownessa - come lei stessa ama definirsi - dal 1978,  di parlarmi del  pagliaccio e del suo linguaggio. Rosa, che è di origini calabresi e ha vissuto a lungo a Parigi,  conta tra i suoi maestri i grandi Philippe Gaulier e Jango Edwards, è attrice, drammaturga e regista e ha insegnato Improvvisazione e Drammaturgia dell’attore all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico”, all’ Accademia del Teatro Bellini di Napoli e attualmente alla QAcademy (ex AIAD) di Roma. E’ stata anche docente di Tecniche di Commedia dell’Arte in Italia, Francia, Spagna, Canada e Stati Uniti.


Rosa, mi piacerebbe che tu ci parlassi del clown. E soprattutto del tuo clown.

Io penso sempre che il Clown sia un meraviglioso idiota e che il suo lavoro è far morir dal

ridere gli spettatori: lo scrivo sempre in tutte le presentazioni dei miei corsi sul clown.

Io non sono un clown di professione, ma il mio clown lo conosco bene e sta sotto tutte le cose

che faccio: scrivere, dirigere, insegnare, recitare…

Nella vita non sono persona facile: di origini calabre della zona sibaritica, non posso mai

separarmi dalle mie radici che affondano nella cultura tragica della mia gente.

Quando, da piccola, facevo scherzi e giochi stupidi, mio padre mi rimproverava sempre

dicendo: “Smettila di fare il pagliaccio!”, senza alcuna consapevolezza di indicarmi un destino.

E’ stato sempre troppo pesante portarmi dentro e addosso tutta quella serietà che mi veniva

imposta, per questo – quando ho fatto ridere un pubblico di studenti di teatro per la prima

volta – quasi non mi riconoscevo: ma ho riconosciuto immediatamente quel destino.

Se non so ridere io – ho pensato – posso far ridere gli altri!

Ridere è una delle cose più belle che può accadere a un essere umano, quindi saper far ridere

è dote di quell’attore che lavora per la gioia del pubblico.

Per questo ho deciso di diventare un clown prima e un’attrice poi.

In seguito ho scoperto che i giochi e le improvvisazioni potevano essere “ripetute” e quindi

sono diventata un’autrice/drammaturga, di conseguenza una ricercatrice.

L’ho scoperto insieme alla fortuna di incontrare un paio di “good friends”, clownesse con le

quali ho fatto e disfatto compagnie, fatto radio, cinema, televisione…

Infine ho scoperto che sapevo e potevo insegnare come si fa il teatro, non solo quello più

classico, ma soprattutto il mio teatro, quello che non può fare a meno del clown.

E’ stato un percorso pieno di scoperte. Mentre nel mondo c’erano quelle scientifiche e

tecnologiche, riguardo all’umanità ce ne sono state altrettante, tipo quelle che magari stanno

lì da sempre e, proprio per questo, non vengono mai viste.

Una importante è stata che ridere è un fenomeno universale e questo vuol dire che tutti

possono capire un Clown. Ecco perché ho potuto viaggiare pur non conoscendo molto bene

l’inglese!

Accanto a questa grande qualità, il clown ne ha un’altra meravigliosa: è contento di mostrare

quello che fa, è come un bambino che fa vedere a papà e mamma il trucco che ha appena

imparato. Tutti siamo stati bambini, tutti siamo stati divertenti, poi l’abbiamo dimenticato. Il

clown invece continua a ricordare…

Siamo tutti dei clown: ci crediamo belli, intelligenti, forti, eppure abbiamo tutti delle

debolezze, dei lati ridicoli che, esprimendosi, fanno ridere. Il Clown non si vergogna e non si

nasconde, anzi si mostra perché, così facendo, il pubblico - ovvero mamma e papà - ride.

A differenza degli altri personaggi dello spettacolo, il clown ha un contatto diretto e

immediato col pubblico: non può vivere che con e sotto lo sguardo degli altri.

Non si può fare il clown davanti al pubblico, lo si gioca col pubblico.

Il clown non è un personaggio, non esiste al di fuori dell’attore che lo gioca, è l’attore stesso

che gioca il gioco della verità: più è sé stesso, sorpreso in flagrante debolezza, più è buffo.

Non gioca un ruolo, ma lascia andare l’innocenza che è in lui e - quando fallisce il proprio

numero o mostra le difficoltà che subisce, permettendo allo spettatore di sentirsi superiore

– “svela la sua natura umana profonda che emoziona e fa ridere” (Philippe Gaulier, che poi è il

mio maestro) .

 

Quali sono gli spazi ideali per il clown?

 

Il teatro e la strada sono spazi ideali per un Clown, perché permettono alla performance di

esistere nel tempo reale, in un assoluto presente che è scambiato e condiviso da persone vive

con persone vive. Le condizioni sono quelle assolutamente necessarie: attore, pubblico, luce, non c’è bisogno di nient’altro. Né scene, né costumi, né oggetti…

Il clown è un bravo “mimo”, con i suoi gesti e la sua voce può convincerti a immaginare di

nuotare sott’acqua, di incontrare alieni, di parlare con dio, di mangiare, di fare una corsa in

moto o di scappare dai vampiri… insomma praticamente tutto l’immaginabile…

Ma anche il cinema ha rappresentato una bellissima casa per i clowns: Buster Keaton, Charlie

Chaplin, Stan Laurel e Oliver Hardy, ma anche Benigni e Totò ci hanno regalato – in modo

indelebile – momenti meravigliosi di divertimento e incanto. In TV i Clown (o almeno quelli che io ritengo tali) non li riconosco negli attori, quanto nelle persone vere, riprese in tempo reale: le candid camera, gli scherzi anche crudeli, gli incidenti di vario tipo, le reazioni di meraviglia autentica rispetto ad accadimenti inaspettati…

Ci sono rubriche ( per esempio di Striscia la Notizia ) di incidenti che accadono alle persone

vere, che mi fanno veramente ridere, perché mi accade quello che faccio accadere quando

sono clown.

Quando assisto a un numero di clown – di un bravo attore o di una persona reale - mi sento

superiore a quello stupido che cade sbattendo il muso per terra. Quando quello scemo stava

per cadere, mi ero identificata con lui, ho provato la sua stessa paura o disorientamento.

Dentro di me si è scatenata molta tensione: quando il clown (attore o meno) cade, quella

tensione cala di botto: si tratta di una reazione biochimica del corpo umano che si traduce in

uno scarico immediato, repentino: è lì che sorge il riso.

E’ una zona che un bravo attore conosce bene: è la stessa del grido, del pianto e della

bestemmia.

Il clown regala allo spettatore la certezza di essere molto più intelligente e molto più in

gamba di quel cretino spiattellato al suolo, una certezza che dà molto piacere, il piacere di

sentirsi migliori. Non è poco, no?

 

Di quale cultura si nutre il tuo clown?

Di tutto.  Più la persona/attore è sensibile al mondo, più le gags del suo Clown arrivano al cuore di tutti.  Da Clown recitavo una poesia di Tonino Guerra che era sicuramente un grande intellettuale, ma le sue parole, così semplici e così vere, erano un ottimo testo per un clown.

Ma attenzione! Psicologie o intellettualismi uccidono ogni spontaneità…

Il pensiero intelligente è un buon amico del clown, ma non il pensiero psicologico che è nemico

tanto quanto la volontà: il clown non vuole mai niente, non lo pretende.

Il clown raramente propone, in genere reagisce soltanto.

 

Cosa puoi dirci a proposito del lessico del tuo clown?

 

Anche per quanto riguarda la lingua e l’uso delle parole, il Clown è l’essere più libero che io

conosca: ama tutte le lingue e tutti i dialetti, i suoni, le note e le onomatopee e va anche

oltre, spesso creando dei personalissimi gramelot . E’ il suo modo di farsi capire ovunque e da chiunque…

Ama inventare le parole e i modi di dirle, a volte si spaccia per poeta e spesso lo è veramente!

Ed è il suo trucco per non farsi mai censurare!

Quali parole predilige il linguaggio del tuo clown? Perché?

 

Il mio Clown è molto cambiato nel tempo, così come è cambiata la persona/Rosa.

E così il mio linguaggio teatrale che si è arricchito e ripulito, via via che mi nutro di cultura, si

è liberato con la maturità delle esperienze della vita: gli amori, i lutti, le paure, i successi, le

disperazioni…

L’insegnamento mi ha felicemente costretta a inventare continuamente parole nuove per

comunicare meglio. E’ insegnando che ho scoperto il grande potere delle immagini.

Quando, nel ’77 urlavo nelle piazze “Fantasia al potere”, ero consapevole solo in minima parte

di quel famoso destino di cui sopra.

Quando il mio Clown riesce a far ridere saltando pericolosamente dai significati allo sberleffo, quando riesce a non perdere l’equilibrio e precipitare nel patetico, quando fa acrobazie tra la merda e le stelle… io sono felice…

Quando i miei attori comprendono come fare per poter volare nell’immensità dell’essere umano

e poi atterrare o cadere senza farsi male… io sono felice!

 

Che relazione c’è tra il clown e la poesia?

 

E’ la stessa relazione che esiste tra me e dio. Non ci credo, ma lo sento.

Dio lo sento nei momenti perfetti che offre il palcoscenico – in prova, a volte – e il deserto del

Sahara – ci sono stata molte volte. Lo sento in quegli attimi completi - e infiniti nello stesso

tempo – che offrono i bambini, la risata di un vecchio, il colore di una nuvola, la miseria di un

barbone, il lamento di un malato che muore, l’imprevedibilità di un gatto…

Sento la poesia in uno sguardo innamorato, nella scritta su una lapide e la sento nella vergogna,

nella rabbia, nel dolore, in un artificio teatrale, in una storia inventata, nella crudeltà della

vita e anche in un’ immagine che si crea dentro di me improvvisamente, come un miracolo.

Lampadine o stelle ? Alla poesia e al clown non importa: basta che dio faccia luce…

 

Dietro a uno spettacolo c’è solo improvvisazione e oralità o esiste un momento di

scrittura?

 

Per il clown il gioco è all’origine di tutto: il piacere e il desiderio, non già di piacere, ma del

piacere di giocare: per questo ha bisogno di tenerlo sempre vivo questo piacere, cercando

di amplificarlo in ogni momento ed è per questo che ha bisogno della complicità col proprio

partner e col pubblico.

Improvvisare - saperlo fare – vuol dire vivere – poco magari, ma intensamente - con

freschezza, apertura e generosità e – contemporaneamente – convivere con il rischio di fallire.

L’attore/clown si obbliga a seguire lo stato d’animo e le sensazioni del momento stesso in cui

avviene l’azione, per rinnovare continuamente la capacità di reazione e lo stato di stupore che

l’inaspettato causa necessariamente: ogni incidente di percorso, ogni reazione del compagno di

gioco o del pubblico stesso è stimolo di nuova creazione e di rinnovato piacere del gioco.

Il clown è sempre in stato di reazione: al significato delle parole, al pubblico, ai compagni di

scena, anche e a sé stesso. Non dice, solo risponde…

Quindi l’improvvisazione è l’ideale per un clown, ma questo non impedisce di “poter ripetere”

ovvero “re-citare”: grandi Clowns che fanno parte della generazione dei miei maestri – alcuni

non ci sono già più (Dimitri, per esempio) – spesso avevano un numero solo con cui andavano in scena, sempre! Ovvero – nel caso di Dimitri – per più di 40 anni!

Poi ha fondato una Scuola di Teatro, unica in Svizzera, che insegna agli attori, ai registi e agli

autori a essere originali, come quella di Lecoq a Parigi: una scuola di Creazione, non solo di

recitazione.  

Sono da poco tornata a vedere i miei da sempre paralleli e amici “Donati&Olesen”, un duo che mi fa ridere come una bambina con numeri che vedo eseguire da Giorgio e Jacob fin da loro esordio nel 1982…

Slava ha addirittura creato uno show che ora non interpreta più, ma continua a mietere successi da anni in tutto il mondo, interpretato esattamente come da scrittura scenica originale da altri clowns: non smetterò mai di tornare a vederlo, perché i vari clowns che si alternano nelle varie riprese, a volte sono bravi, a volte no, a volte apportano qualcosa di personale, ma sempre stando esattamente in partitura.

Leo Bassi – grande provocatore - fa da trent’anni gli stessi numeri, ma li collega tra loro con sempre nuove riflessioni, politiche e umane. E poi c’è Jango Edwards che ne ha 381, di numeri!

Per tornare alla scrittura (vivente o ripetibile) – se devo pensare a un numero di clown per

me o per uno dei miei attori – scelgo di partire da un “gioco”, uno solo, rischiando di portarlo

in scena senza sapere dove mi porterà, senza conoscerne il finale: a volte il finale arriva e ti prendi l’applauso, a volte non arriva e il gioco continua, si trasforma, passa e va: dove va? Non si sa...

Per gioco intendo proprio un gioco: essere un idraulico, svitare una lampadina, salutare… A

volte è solo una musica, o una parola… un suono… avere paura o essere innamorato…

Giochi: azioni, immagini o stati d’animo lo possono essere.

La creatività del Clown, la sua capacità di reagire in tempo reale è una risposta alla vita, uno

stupore di fronte alle sue infinite variazioni.

                                                                                               Davide  Cortese

 

(Esca) Recensione: Massimo Pacetti e Amedeo Morrone

Immagini. Anime nomadi

Le poesi-canzoni di Amedeo Morrone e Massimo Pacetti

di Sarah Panatta


                                          foto di Iolanda La Carrubba
 
Siamo pidocchi su aliti di vento. Viaggiatori inconsci sui solchi del dolore e del rigetto. Pellegrini sulle dune impervie di un'esistenza mai pacifica. Siamo cocci aguzzi di una bottiglia condivisa ai bordi del marciapiede non visto. Siamo coscienze ottuse e valichi nella nebbia. Siamo cristalli spezzati, luci rifratte nel battito di un tempo che non possiamo conoscere fino in fondo.
 
Massimo Pacetti, poeta e scrittore caustico e sottile, debordante e voluttuoso, prolifico come batterio invisibile e tenace. Amedeo Morrone, cantautore imprendibile, morbido eppure mai nostalgico, acuto e mai emulativo, rabbioso ma non invasivo, anzi paziente tessitore di melodie migranti, fuggiasche, romantiche e rock.
 
Presentato in anteprima il 15 dicembre scorso presso il Ruha Action di Alberto Di Giglio, Immagini,  cd di poesi-canzoni, è firmato da Amedeo Morrone (musiche) e Massimo Pacetti (testi).
Da un'idea originale di Iolanda La Carrubba, le poesi-canzoni sono materia sensoriale prensile, porosa, esperimenti per un'interazione tra sillabe, parole, sonorità vocaliche, accordi musicali, per dare spazio all'immaginazione che dilaga rispetto alla sua forma-contenuto, travolgendola e facendone un ibrido ogni volta altro, empatico e pronto, a condivider-si. La poesi-canzone cerca nuove sponde per l'Ego poetico, liberandone la posa estetica lineare nella dimensione liquida e anarchica della musica.
 
L'arrangiamento poliedrico del cantautore Amedeo Morrone guida, nell'incantesimo mai utopico, anzi ironico delle sue partiture, e racconta in Immagini i versi assolutamente congeniali di Massimo Pacetti.

 
Nomadi i ricordi in amplesso dialogico con i versi, urlano, gemono, carezzano, sognano, amano, si muovono, giocano. L’esperienza totale della musica, come ventre materno non possessivo ma fertile, incorona le parole. Se poesia è musica, i versi sanno trasformarsi  in Immagini, in flusso d’emozione sentita, intima, ma generosamente mostrata.
In circolo  si fanno osmotici i simboli dell'acqua, del fuoco, della terra. i toni della pelle di stranieri che si sfiorano e non si ignorano. Gli intrecci pericolosi delle relazioni umane. Gli sguardi evitati o penetrati tra identità solo apparentemente incompatibili. Massimo come Amedeo esplorano l'esistere come transito senza redenzioni, tuttavia resistente, eclettico, avido, acceso.
 
Sono testi e note di luce sullo sfascio della tragedia, sull'impulso crudo della memoria personale, sul ritratto feroce di una società stanca e ipocrita. Sono testi e note che si abbracciano brillanti, che irraggiano il quotidiano, godendo dello spiraglio di sole invernale in ogni gesto del vivere.
 
Colori ancestrali e spazi di riconquista oltre umana. Le poesi-canzone di Amedeo Morrone trovano e sposano con la saggezza della strada attraversata "insieme" le parole di Massimo Pacetti. Nella loro festosa, lacerante, affascinata e seduttiva presenza. Opera palpabile e insieme spirituale, cammino pop, folk, ballata ironica, contro tempo funambolico, corda rock intrisa di swing lento e improvvisamente sincopato, ritmicamente selvatico eppure dolcissimo. Agra meraviglia dell’esistere, le opere in musica di Amedeo Morrone traspongono questa volta le intense poesie di Massimo Pacetti in un viaggio nel contemporaneo che desta e fa danzare, in discordi armonie i cinque sensi e spalanca perennemente le “porte” dell’immaginario, perché restino aperte.

 

La visione musicale del mondo, il mondo musicabile, tra fantasia e realtà oltre lo “specchio”.

(esca) Poesia: Daniele Coltrinari

I numeri di Belleville
22/03/2004


(da Verse Parisienne - inediti) di Daniele Coltrinari)



91 Apolinnaire (86)
97 Balzac (48)
30 Morrison J. (6)
58 Molière (25)
83 Wilde O. (89)
90 Proust (85)
71 Piaf E. (97)


Questi sono i numeri “storici”, ma se siete dissacratori bè…
Allora giocateveli al lotto!

(esca) Gemellaggio: "Il Parere dell'Ingegnere"

"EscaMontage blog" e "Il Parere dell'Ingegnere"

Due riviste di cultura e informazione, in una nuova sinergia di idee


 
 
 
 
Da questo mese EscaMontage si "gemella", in una media partnership di idee e nuovi entusiasmi, con la rivista "Il Parere dell'Ingegnere. Periodico telematico di attualità, cultura e scienza".
 
 
 
Da anni on-line con il suo impegno informativo a 360° nel panorama dell'attualità romana e non solo, prezioso per il suoi consigli cinematografici in anteprima, "Il Parere dell'Ingegnere", diretto da Catello Masullo, entra da questo mese nella homepage di EscaMontage Blog, come link di approfondimento e di interazione con i nostri contenuti multimediali.
 
 
Buona iper-lettura!!!

(esca) Poesia: Sarah Panatta

Se...C'era una volta a New York
(cine-poesia dedicata al film di James Gray C'era una volta a New York - inedita)

di Sarah Panatta


Nuda per ricevere il timbro
messaggio precario, sgranato su un pezzo di carta
che non avrai

Traghettata in mezzo al
grande canyon delle anime morte,
sul mostro marino affollato,
spillata sulla rocca livida e sacra,
non vedi luce nella torcia
sollevata contro le nubi immobili

Il Nuovo Mondo è una coperta tarlata
un fiato stipato di lingue segrete
un gruzzolo di volontà stuprate
e di biglietti ammuffiti
un baule di trucchi scrostato e sempre chiuso
un contratto firmato dal sangue
e nel sangue lavato

Nuda nello specchio
hai venduto l'anima, vecchio sabotaggio,
l'aguzzino è solo esca, ombra, riflesso
di una giacca senza ospite

Nuda a cavalcioni
su un nuovo traghetto,
salva la memoria

Lasci il Nuovo Mondo
Il Nuovo Mondo, bruciato,
ti ha spento, scartato

(esca) Short: di Sarah Panatta

Le Grande Bellezza del Cine-Marketing
Dai Golden Globe a Tutta Colpa di Freud, passando per i Vanzina

 

 
Il languore della grande "meretrice". Allagata dall'alba allucinogena di tutti i santi giorni. Ogni angolo un sogno di antico potere e la testimonianza della cancrena contemporanea. Ogni angolo il coma vigile ma poco lucido di un Paese che sa farsi cartolina. Statica, mercificata, abbandonata. Ogni angolo la foto plagiabile per la svendita.
 
Ogni angolo uno spot e un lascia passare per il finanziamento pubblico all'impresa privata. Il cinema italiano contemporaneo, soprattutto la commedia ad alto budget che si fregia/giustifica di/con artistiche ascendenze tradizionali, è ormai sempre più sistema feudale. E operazione di marketing virale. Il film vende, prima che se stesso (al mercato italiano e americano, biforcazione imperialistica), i libri e la catena editoriale, le location turistiche e le agenzie di viaggi, l'industria automobilistica e, vero lupus in fabula, il colosso mediatico e monopolistico che tutto ingloba e innerva. Cifre da colossal anche in tempi di "crisi" (6 milioni per l'ultima fatica di Paolo Genovese Tutta colpa di Freud) e aspirazione seriale di fondi pubblici. Piazzare sul mercato la meta turistica italiana è diventato primario mezzo/scopo pseudo-culturale per molti "progetti" filmici, pronti così alla confezione "esterofila" e nel caso autoriale, anche per la premiazione nei lidi americani.
 
 
Mentre il complesso, debordante, certo discutibile, ma magnetico, La Grande Bellezza di Sorrentino apre le porte all'opera laccata di simil-introspezione, Medusa & Co. scatenano la scuderia dei registi-sceneggiatori televisivi abili nell'artificio della scrittura scorrevole e lieve. Acqua e bollicine, belle facce, dizione impeccabile della perenne ex divetta di turno, cameo sexy del comprimario inevitabile, triangoli amorosi accattivanti, e nessuna novità all'orizzonte. Il film-evento, il film-spot è contenitore per altre promo-azioni. Quindi consolatorio e colorato, volgare nei ranghi della "prima serata" esportabile e  ben "arredato".
 
Quindi a pochi giorni di distanza scorrono i Vanzina e il balneare, tanto innocua quanto drammatica ricetta di nostalgia riempitiva, Sapore di te, con il pur veemente e sempre eclettico Salemme, e Tutta colpa di Freud dell'"immaturo" Paolo Genovese.
 
Luoghi comuni, spazi da centro commerciale, il "centro" romano "in", da Campo de' Fiori a Via dei Coronari, qualche sfilata tra gli scaffali del maxi store e via. Il transito verso le sale americane. Mentre il ministero stacca assegni e il pubblico oblia la realtà ingannevole di un sistema culturale che della Cultura ha smarrito qualsiasi coordinata. Muti e sordi, come il Vinicio Marchioni del film di Genovese, ignoriamo quella coordinata, poiché ad essa non educati né ricondotti, forse.
 
 
E le poche major fagocitano e imparano. Sapore di...

(esca) Vacancy: Carlo Mazzacurati

La "lingua" di Carlo
Lungo addio al poeta del "nostro", altro, nordest

di Sarah Panatta


Un cristo perfetto. Povero, ricercato, tutti ridono di lui. Defilato, eppure presente, lui vede tutti.
 
I personaggi scritti e diretti da Carlo Mazzacurati galleggiano in questa manciata di indizi.
Cristi in croce ignorati e desiderati. Corpi sfruttati, vanificati, rinsaviti, ritrovati. Non si riconoscono nel pieno-vuoto della comunità d'origine, ma non riescono a rompere il cordone ombelicale con la provincia "arcaica" innestata da migrazioni, capitali, nuovi abiti e vecchi costumi. Evitano l'asfissia evadendo per una stagione o per un istante. Accolgono i linguaggi multipli del presente che stagna della fatica della valle/laguna ermetica, e soffrono nella decifrazione lenta anche se inesorabile.
 
Morto a 57 anni, il regista-poeta, cantore saggio e mai prudente, ibrido cultore della pianura muta e umida e dell'elettricità invisibile della colonizzazione tecnologica e culturale. Carlo si piantava nel mezzo ad osservare l'incontro tragico tra l'antico ancestrale pretesto del resistere e la contemporaneità quella velleitaria e urlante dei nostri anni italici, europei, barbaricamente ciechi, quella della molteplicità identitaria balbettante.
 
Dall'esordio trentenne, con Notte italiana (1987), al grottesco delizioso nonché grondante affresco de La passione (2010), da Il toro (1994) a L'estate di Davide (1998). Da La lingua del santo (2000) a La sedia della felicità (2014), passando per La giusta distanza (2007), forse uno dei migliori film italiani dal 2000 ad oggi.
 
La casette tarlate, basse sui vicoli orizzontali, le statue rapite, il riscatto della borghesia tradizionalmente ottusa ma positivista,  ladri in bicicletta, perenne crisi economica, la miseria sulle labbra delle nuove generazioni pronte a rosolare la schiena al sole, le amicizie sui letti d'ospedale, le cambuse oltraggiate, le spighe invasive nel passato rotto, le famiglie allargate e i clandestini vicini di sguardo, ultime cene sbeffeggiate e maestre ammazzate. Carlo inquadra cercando la giusta distanza, la registrazione emotiva partecipata ma asciutta del terremoto di civiltà.
 
La nebbia parlante del nordest, la marea lagunare, un respiro che regolare sale e scende, scandendo il ritmo interno di ogni opera. Il paesaggio della campagna indimenticabile che assorbe nuove forme di vita e nasconde pozzi sgretolati, non un "teatro di posa naturale" bensì un catalogo senziente di passioni e pensieri, una volontà stregata, un personaggio in sé.
 
Carlo è ancora là, sulla sua barca, sul pelo liquido della laguna di terra e d'amori, d'amare incertezze e di cuori acerbi, di cristi e di santi.