mercoledì 1 maggio 2013

Racconto: Sergio D'amaro

Sergio D’Amaro

Il grande ghibli

(cap. 4)



Zàhara El Beida El Azizia


   Nello scomparto centrale del vecchio armadio di Via Rosselli avevo notato fin da bambino una giacca dall’aspetto particolare. L’avevo lasciata là, senza chiedermi perché nessuno vi facesse granché caso e perché nessuno desse sufficienti spiegazioni. Poi una mano pietosa vi aveva applicato una copertura di cotone chiaro, rubandola alla vista per lunghi anni. Evidentemente la stoffa cominciava a cedere o più semplicemente era diventata insopportabile allo sguardo e meritevole di una certa discriminazione. In quell’armadio si erano succedute generazioni di abiti senza che l’angolo riservato a quel capo fosse minimamente scalfito o spostato. Tutto apparentemente naturale, anche le sfere di naftalina che avrebbero dovuto preservare dalle tarme e l’immancabile fetore che ne scaturiva.
   Inossidabile come una mummia a cui si deve un religioso rispetto, la giacca vide anche lo sbocciare della mia giovinezza e le relative vicende che l’accompagnarono. Cresciuti, si assume un atteggiamento critico, quasi inquisitivo. Fu così che riuscii a svelare l’arcano sollevandone l’approssimativa custodia di stoffa e appoggiando il misterioso indumento sulla sponda del letto. Si trattava di una giubba militare in tipico grigioverde, alquanto lisa ai margini e ai gomiti, con una evidente macchia chiara alla base delle spalle. Sul petto sinistro alcune mostrine e a distintivo inequivocabile del corpo di appartenenza i fregi con le asce incrociate, le scariche elettriche e un'antenna radio circolare a sei braccia posta sotto la bomba fiammeggiante. Nelle tasche della giubba, ormai nascoste alla luce della gloria, tre medaglie ad evidente premio di partecipazione alle imprese belliche africane.
   Se quella reliquia era durata così a lungo, lo doveva certo al suo essere un pezzo d’archivio. Negli interstizi del tessuto forse c’era ancora qualche antico granello della calda Africa, o qualche spento seme d’agave o di palma. Malgrado la sua manifesta alterazione materiale, promanava ancora un certo fascino, una specie di sorda memoria che non voleva estinguersi. Avrebbe potuto risalire agli ultimi anni Trenta e certo aveva fatto lunghi viaggi. L’aveva indossato qualcuno che non era diventato mai eroe: il suo destino era stato quello di tantissimi altri uomini travolti dalla grande corrente del ghibli. Qualunque cosa pensasse o volesse, anche lui era stato trascinato dal bisogno e dall’occasione in un’avventura superiore alle sue forze e ad ogni magnificata fantasia.
   Durò a lungo il mio sguardo interrogativo su quella giubba scampata all’oblio. Ero incerto se richiuderla nell’armadio o tentare di ricostruire almeno un pezzo del mosaico a cui apparteneva. Ci sono cose che feriscono o appassionano, e ci sono cose che riescono a comprendere entrambi i sentimenti.

***

    Giarabub, Gadamesc, 29° Parallelo sono alcune tappe dell’avanzata italiana in Cirenaica. È una marcia inarrestabile, che penetra nel corpo di una nazione come un cuneo affilato e provoca un’alta marea dalle conseguenze imprevedibili. Invade le sponde, poi l’interno, si spinge fino ai piedi del serir e poi sale, sale verso il Gran Jebel scompigliando gli equilibri secolari delle sue tribù. I villaggi e le città sussultano sotto l’incalzare del moloch insaziabile, fuggono intere popolazioni, marciano con i loro animali e le loro masserizie verso un’altra destinazione. È uno strappo biblico, un trauma senza fine. E ci sono migliaia di giubbe grigioverdi, migliaia di askari, file sterminate di autoblindo: rastrellamenti, punizioni, restrizioni, limiti che ora diventano invalicabili, campi costruiti ad Apollonia e Agedabia, Soluch e Mersa el-Brega, Barce ed El Agheila. Qui si alzano tende, sterminati gruppi di tende, un filo spinato morde centinaia di chilometri nella rossa polpa del deserto al confine egiziano. Da Bardia a Giarabub il reticolato della frontiera è un’opera colossale, è un filo lungo metri 49.980.928, capace di circondare la Terra per una volta e un quarto all’altezza dell’equatore. Annientata la Senussia, annientate le zawie, annientata la rete complicata dei villaggi e delle città, eredi dell’antica Pentapoli greca.
   Un aedo sconsiderato prende la cetra e canta:

“Genti, alla costa!” disse: e senza ambagi
un’immonda migrò biblica schiera,
sottratta a l’odio ai morbi ed ai contagi.

E perché un varco sol non fosse aperto,
gettò di ferro un’ispida barriera
da Solum a le soglie del deserto.

   La carovana degli Auaghir coi loro duemila cammelli attraversò oltre trecento chilometri di terra inospitale, da Driana a Sidi Mansur, Benina ain-Naiaghia, Hora el-Ghetaan, Ghemines, e quindi Soluch. Marcia tragica, spari, grida e la polvere continua che dissecca i polmoni. Poco manca all’incubo di uno sterminio pianificato, nessun dubbio sulla crudeltà di quel destino. A Sidi Ahmed el Magrum il campo ha la forma di castrum romano. Ogni lato misura milleduecento metri. Dentro vi sono otto quadrati e ogni quadrato conta da quindici a venti file. Tutto è numerato e specificato. Da soggetti, numeri, da protagonisti della propria vita a schiavi di un ordine estraneo.
   Noi che eravamo stati abituati per tutta la nostra vita a vagare da una parte all’altra del nostro grande paese in cerca di pascolo fummo costretti a stare fermi e chiusi in un campo. La vita ci sembrava ormai tolta e non avevamo più niente in cui credere, a niente potevamo sottrarci. Il tempo si era fermato ad El-Agheila, nient’altro volevamo che il giorno finisse nella speranza che il giorno successivo ci avrebbe portato la libertà. Al centro del piazzale vedevamo corpi pendere dalle forche, mentre le malattie crescevano e divoravano soprattutto i bambini. Ad El-Agheila c’erano tre cimiteri, una scuola, una moschea, una prigione, quattro campi recintati, un pozzo, stavamo a poca distanza dal mare e a poche centinaia di metri dalla nostra salvezza.
   In tempi remoti quel mare aveva unito lontani porti del Mediterraneo, aveva portato ricchezze, arte e civiltà. Nessuno avrebbe potuto immaginare che l’Itala avrebbe impegnato il peggio delle sue intenzioni in un’impresa così costosa e prolungata. La civiltà, ora, significava imporre la propria forza, cancellare ogni traccia del passato, creare dal nulla un nuovo ordine che aveva nella sua presunta superiorità la sua unica giustificazione.
   Così era stato per El-Agheila, così fu per tutti gli altri campi in cui centomila tra uomini, donne e bambini conobbero il genocidio. Chi tentava la fuga o accennava a ribellarsi o soltanto cadeva in disgrazia veniva giustiziato e usciva cadavere dal perimetro del campo. Molte le vittime di epidemie, di fame, di stenti, di vessazioni. Quando ci si accorse che occorreva il colpo finale per mettere a tacere anche il capo Omar al-Mukhtar, si marciò sull’ultima e più difficile roccaforte della rivolta. Ad oltre ottocento chilometri di deserto, andando a sud, si stende l’oasi di Cufra. Fu un’impresa quasi folle, che ricordava quella di Giarabub. I ribelli si concentrarono in quella landa sperduta, a cui approdare significava compiere un’impresa più grande di ogni tempesta marina. Ma non contarono i giorni, non contarono i morti, non contò la corsa forsennata verso la vittoria, giacché il trionfo si trasformò nel disonore di una civiltà tradita e di un’umanità definitivamente calpestata.


***

   Ripercorrere con veloce memoria quei fatti sembra quasi offendere le singole vite che ne furono coinvolte. Il dolore e l’umiliazione possono coglierti all’improvviso, ma le loro conseguenze si sciolgono nel sangue con lento veleno. Si ritorna ad una normalità ormai sconvolta: è come se davvero fosse arrivato un grande ghibli a trasformare radicalmente il paesaggio, spostando riferimenti, soffocando affetti, bruciando i ricordi più resistenti. Ed ecco allora che su questa devastazione, in questo sommovimento di geografie, viene a fissarsi un lontano batuffolo che avvolge un seme vagante. Lo ha portato l’ultimo residuale soffio di un vento diventato benigno e lui si offre al caso, alle zigzaganti correnti che decideranno il luogo dove potrà nascere un nuovo fiore, un nuovo albero o un nuovo stupefacente campo pieno di frutta. È la vita che riprende, convincendo Omar ain-Sudduf a ricominciare il suo impegno ad El Azizia e a ritentare di far rialzare le sue quotazioni economiche, piegate dalla dura legge dell’odio e dal confronto bestiale. Non c’è altra scelta se si vuole evitare un ritorno, del resto impossibile, alla condizione primitiva di pastore nomade, abituato alle semplici consolazioni del duar e alle feste comandate.
   Io ero approdato ad El Azizia provenendo da una terra forse ancora più povera. Avevo tirato su, dopo alti e bassi, una piccola bottega di falegname ereditata da uno zio che a ventitré anni, all’improvviso, aveva deciso di andarsene in America. Diceva che era stanco di fare sponde per i carrettieri e zappe per i contadini. Dopo una seconda visita medica, finalmente favorevole, aveva comprato il biglietto dal Lloyd Adriatico e s’era imbarcato a Napoli sul Conte Biancamano, facendo rotta per l’ovest a baciare i piedi della Statua della Libertà. Sembrava un pioniere, di quelli visti al cinema, tutto muscoli e sorrisi ottimistici sotto uno sguardo proteso alla conquista del futuro. Avrebbe fatto lo stradino o il carpentiere, l’importante era schiodarsi da quell’orizzonte di vita e tentare il balzo sociale.
    Avevo in famiglia un esempio parlante e questo mi induceva a compiere, a mia volta, il passo che mi avrebbe assicurato il proseguimento delle mie ambizioni. Si viveva una grande tensione: superare i confini, forzare i limiti, proiettarsi verso esperienze inimmaginabili, formare un’altra Italia: tutto questo avrebbe aggiunto potenza ai cavalli-vapore di un impero già in pieno fulgore. La terra che ci aspettava era bianca, fiorita, deliziosa, vittoriosa. Era, a pensarci, quella che molti secoli prima si era riunita attorno a Cirene e a Tolemaide e aveva visto l’espandersi di una civiltà prodigiosa. Era stato il Jebel al-Khader a consentire tutto questo, ed ora noi partivamo per ripetere quell’antico miracolo, forti dello slancio temerario del Grande Aviatore. Lui ci guidava in un altro cielo, ci assisteva nel difficile decollo dell’impresa titanica e si offriva come un Virgilio insperato a nuove inaudite georgiche. Come costruire nuovi pezzi d’Italia ai confini del deserto e ai piedi di quella montagna che a molti, provenendo dalla Sicilia, dalla Puglia, dalla Calabria, dal Veneto, ricordava qualcosa di famigliare con gli ulivi, i lecci, gli eucalipti, i carrubi che avevano riempito gli occhi fin dall’infanzia? Il verde Jebel stava lì ritto da secoli come un avamposto invitante e una porta d’Africa, con i suoi livelli geologici di altopiano e con la sua acqua che ad occidente prende il nome di al-abiar. Uno di quei più coraggiosi viaggiatori che avevano scoperto il sito miracoloso, vi aveva notato il ginepro fenicio, che ne ingombra le vette e gli imprime un carattere particolare.

L’aria pura che si respira tra questi monti, la stessa loro solitudine, ravvivata dallo spettacolo della natura, infondono nell’anima un sentimento di calma e di piacere, che affeziona oltremodo a questo luogo. Amene valli pianeggianti si aprono tra le sinuose propaggini di questi colli, e vanno di valle in valle, errando coi loro armenti i beduini, allettati dalla ricchezza dei pascoli e dall’abbondanza delle acque, che li mantengono freschi e vigorosi. Misti agli ulivi crescono giganteschi alberi di fichi e carrubi, di pistacchi e di peri selvatici, e tutto insieme l’aspetto del paese, abbandonato interamente alle sue forze, presenta un’immagine inconfutabile di prosperità, ben maggiore di quella delle nostre contrade. Più volte colpito dalla feracità di queste terre, dall’aria pura e temperata che vi si respira, circondato da tanti monumenti dello stato di prosperità degli antichi abitanti della Cirenaica, io non sapevo comprendere come, nei tempi in cui le armate europee, spinte dallo zelo di religiose conquiste, avevano preso la volta di queste contrade, nessuna potenza abbia pensato di trasmettere qui una colonia, onde sostenersi a piè fermo nel fertilissimo suolo della Cirenaica.

   La ricchezza sopita per così lungo tempo avrebbe potuto tornare a risorgere, incoraggiata da una nuova alleanza tra moderni coloni e pastori beduini. Trecentosessanta sorgenti, questo il numero che si favoleggiava si celasse nelle viscere carsiche del Jebel e ne rinfrescasse perennemente la fertilità. Qui, qualunque altro west avrebbe potuto esser sicuro di fermarsi e di piantare le sue tende e le sue macchine per l’inizio di una nuova Terra Promessa. Tanto felice questa terra da permettere al contadino e al pastore di convivere senza attaccarsi. Nelle verdi praterie tra le montagne gli animali avrebbero avuto pascoli sterminati, senza bisogno di contendere lo spazio alle più feconde colture e alla mano assennata dei nuovi progetti agrari. Derna era già una fiorente città con i suoi campi ben coltivati e le sue case modeste ma efficienti. Le mani callose dei suoi abitanti erano equamente divise tra i campi e le leve del solerte telaio che fabbricava trama dopo trama centinaia di barracani. Lavoro per sfamarsi, lavoro per vestirsi, lavoro per portare la preziosa acqua delle sorgenti a fare più ricca l’intera comunità. Fin dai tempi degli antichi greci questo luogo miracolato dalla natura aveva offerto verde ospitalità a chi ardì erigere templi e ginnasi in piena Africa, esercitandosi alla parola filosofica o al volo pindarico.
   L’aria, le sue selve, le piante sono impregnate dello stesso profumo che aleggia sui territori d’Italia. Ogni anfratto di roccia, ogni zolla valliva, ogni varietà vegetale ricorda il suolo italiano. Se non fosse che vi si giunge attraversando aride pianure di sabbia e di pietra, si potrebbe confonderla con una semplice regione dell’altro continente. Qualcuno, non a caso, vi riconobbe il Giardino delle Esperidi e fece poi della Pentapoli uno scudo formidabile di civiltà.

***

   Doveva essere un’esplorazione, diventò, invece, un lungo, patito viaggio attraverso immensi territori. Avevano percorso già un lungo tratto di strada, stando ben attenti a schivare i duar privi di acqua e foraggio, o le tribù che manifestavano chiari segni di aggressività. Li accompagnava una piccola scorta turca, il cui comandante aveva l’occhio addestrato a qualsiasi movimento, eppure non avaro di una certa affettata gentilezza, che urtava col suo aspetto orribilmente vaioloso. Il marchese Caetani era uno che aveva sostenuto mille prove e quella che stava tentando gli sembrava degna della massima considerazione.
   Ben presto venimmo a sapere perché il marchese s’era deciso a quell’avventura. Distribuiti tra i contrafforti del Gran Jebel e le sconfinate coste della Sirte, giacevano, senza che nessuno ne avesse avuto notizia in precedenza, innumerevoli depositi naturali di fosfati, zolfo, carbone, ferro, argento e anche di vene importanti di petrolio, che facevano presagire un nero flusso di ricchezze. Il marchese non aveva l’animo abituato a fantasticare, ma per quella spedizione aveva riservato una quantità davvero impressionante di aspettative. Era ben consapevole, d’altronde, che la nuova situazione, in cui s’era venuto a cacciare, assomigliava più a quella di un prigioniero privilegiato che a quella di un libero compassatore di mai viste geografie. Sappiamo, infatti, che la scorta turca li condusse in un primo momento proprio all’interno di quel territorio, dove la sete cresceva e il mostro proteiforme del simun li avrebbe potuto stritolare nelle sue spire. Erano stati portati a Murzuk, nel Fezzan, e dopo essere rimasti per cinque mesi in quel remoto avamposto erano finalmente ripartiti, avendo comunque a disposizione una messe non piccola di informazioni sulla vita quotidiana delle genti del deserto. Nel frattempo era scoppiata la guerra, ma il marchese Caetani e il fido professor Assennati non avrebbero rinunciato per nessun motivo al loro ostinato obiettivo. Del resto, la sorveglianza delle loro preziose persone, anche se fatta da agenti di un paese straniero, s’era rivelata più utile che condizionante. In fondo, quel loro stato di prigionieri aveva permesso loro di restare in quelle terre un tempo infinitamente più lungo: al di là della conoscenza della composizione chimica dei terreni attraversati, il viaggio si stava rivelando una sterminata fonte di osservazioni sul costume di popoli inauditi. I loro lunghi soggiorni sul posto e i contatti avuti con villaggi e quartieri erano valsi dieci spedizioni messe insieme.
   Le conclusioni che in un primo bilancio il marchese Caetani e il professor Assennati hanno potuto tracciare, al di là di ogni sospetto di pura impressione, convergono verso l’ipotesi che con opportuni metodi di lavoro potrebbe essere sviluppato un vasto numero di aree diverse. Finora, questi luoghi sono rimasti inerti come i loro abitanti, e il governo turco vi ha aggiunto di suo solo una mentalità costante di rapina delle risorse e delle possibilità di sviluppo. Il nord e l’oriente del Gran Jebel potrebbero essere ottimamente qualificati con soddisfacente rendimento agricolo soprattutto nei distretti di Gherion, Orfelia e Msellat. Risulta davvero interessante il fatto che con questa opinione è in perfetta sintonia un esperto francese di questo genere di cose, il signor Mathieux, di professione imprenditore. Nel secondo volume della sua opera, Un esquisse de la Cyrenaïque, sfata luoghi comuni e, incalzando con la sua prosa ora spianata ora adrenalinica, illumina sulle grandi possibilità che presentano le regioni montane. Il signor Mathieux ad un certo punto scrive testualmente:

   Ho ben ragione di credere, cari amici e illustri esperti, che le terre ai piedi del Jebel presentano tutte le caratteristiche di un suolo destinato ad un’aridità assoluta. Con la stessa ragionevole sicurezza, posso però affermare, dopo aver fatto quattro nuovi viaggi, che gli altopiani del Gran Jebel ci avevano nascosto, fino a questo momento, la testimonianza del loro valore, che può finalmente suscitare la nostra meraviglia e la nostra ben fondata speranza.
   D’ora in avanti, illustri signori, dovremo cambiare opinione su queste balze della prima Africa e affermare che qui si fermerebbe l’attenzione e l’interesse anche dell’antico imperatore romano o della più generosa nave greca colma di pregiate mercanzie. Vi dico che finanche nella zona di Jefara si sono trovate tracce di una passata attività agricola. Si sono potuti individuare addirittura cinque frantoi che attesterebbero la molitura delle olive che venivano trasportate dalle colline o dalle oasi del litorale. Si tratterebbe di una scoperta che si aggiunge ad altre scoperte di sparse rovine e vestigia in tutta l’area che poi ha dato il nome ad una buona parte di questa nazione. È vero, anche, che il clima da quei lontani secoli è andato cambiando, con la conseguenza che là dove c’erano città fiorenti e traffici di ricca economia, ora è conquistato dalla mano demolitrice del deserto.
   Gli Inglesi, insieme ai Francesi, sono stati finora i più scettici nel riconoscere la bontà di questi territori. Un certo ottimismo c’è stato, invece, da parte di Tedeschi e Italiani.

   Il signor Mathieux, dunque, aveva intravisto un bel po’ di giusta verità quando andava preannunciando o stimolando l’idea che si potesse annullare la distanza del tempo e si potesse con mezzi di avanguardistica modernità procedere alla inseminazione e alla fruttificazione di quei luoghi semidesertici.
   Fu con questo spirito che si mosse il marchese Caetani, dando ascolto al suo istinto di esploratore. Nelle lunghe settimane di forzata sosta in quei luoghi poté arrivare alla conclusione che la fascia interna tra il Gran Jebel e il mare aveva un sottosuolo imbevuto letteralmente d’acqua, così che si potesse pensare la sua cattura e la sua canalizzazione attraverso grandi opere idrauliche.  Si trattava di un programma grandioso, che avrebbe potuto cambiare decisamente il volto di quella regione. Il marchese Caetani sapeva che uno sforzo del genere aveva già raggiunto ottimi risultati nella opposta regione della Tripolitania e del Fezzan, che raggiunge un’estensione di quattrocentomila chilometri quadrati. Quanto deserto si potrebbe trasformare in fertile humus? Come tanti altri prodigiosi interpreti del destino dell’uomo, il marchese Caetani vedeva moltiplicarsi sotto il suo sguardo attento i frutti già tanto gratificanti delle oasi. Qui fioriva ogni tipo di albero, dai fichi alle pere, dalle mandorle ai limoni, dalle pesche alle prugne. Col tempo vi si erano aggiunti la vite e i cereali, specialmente la coltura di orzo, e c’erano buone speranze che vi sarebbe stato introdotto il sisal, il cotone e il gelso per la futura industria della seta. Monografie e documenti diversi si sono andati intensificando sulla regione del Gran Jebel, arrivando all’opinione che si potrebbe almeno in parte resuscitare il mitico tempo della Pentapoli.
   Qui giunse il nostro uomo, in compagnia del professor Assennati. Si erano finalmente liberati del pesante occhio poliziesco della scorta turca e poterono così dedicarsi al vaglio più attento di quelle antiche orme di civiltà. Da Barce ad Apollonia, da Tolemaide a Cirene, quello che si presentò ai loro occhi fu un’unica esaltante scoperta. Lì sapevano che si erano mossi e avevano intensamente vissuto il poeta Callimaco, il matematico Eratostene, il filosofo Aristippo, il vescovo Sinesio. Un circuito intero di epoche, che si erano arrese soltanto all’avanzata dei Visigoti e alla fatale decadenza che ne seguì. Lì stabilirono che s’era materializzato il Giardino delle Esperidi, una sorta di Eden, che per sua stretta ventura non avrebbe potuto non succhiare alle gigantesche mammelle dell’Africa.
   Scrive il marchese Caetani:

   Eravamo da sette giorni in un distretto davvero singolare dell’Africa Mediterranea. M’ero sempre augurato di incontrare nei miei tanti viaggi una regione capace di soddisfare appieno l’enorme curiosità che mi divorava. Non avevo mai creduto a chi s’impancava a grande conoscitore dell’Africa, vedendovi solo sterminati deserti e impenetrabili giungle. L’Africa, mi dicevo, era stata la culla della civiltà umana, e per questo era d’obbligo immaginare il suo territorio molto più differenziato di quanto potesse pensarsi. Perché nascesse una civiltà era necessario avere acqua e un’agricoltura che andasse ben oltre la coltivazione dei cereali.
   Inoltrandomi nel territorio del Gran Jebel, insieme al fido professor Assennati, potevo constatare coi miei occhi il passaggio in quei luoghi di alcune generazioni di uomini impegnati in attività tutt’altro che elementari. Quanta cura nelle colonne ancora erette dei templi di Apollo, quanta rotonda sapienza nel disegnare l’agorà, quanta acribia ingegneristica nel solcare la terra di acquedotti! Era evidente che quelle opere derivavano da un lungo dialogo col territorio e si erano armonizzate col ritmo di una vegetazione che aveva reso prospere quelle città e ci aveva portato benessere e commerci.
   L’altopiano di Barce era ancora rivestito di allegre verzure tutt’intorno. Pascoli e boschi si alternano a centri di intensa coltivazione, e qua e là rampollano sorgenti perenni. La vegetazione, nel suo complesso, presenta i caratteri inconfondibili di quella mediterranea, e perciò mi pare di descrivere le coste lussureggianti della Sicilia o l’incanto di Sorrento o del Gargano orientale. In particolare, boschi di cipresso, ginepro, leccio conferiscono una bellezza selvaggia al paesaggio, mentre il wadi è ricoperto di mirti e di oleandri. Qualunque altro viaggiatore, minimamente esperto, avrebbe espresso più o meno le stesse considerazioni che qui vado facendo. Un Mathieux, un Rohlfs, un Van Siegelen mi accorderebbe, certo, il conforto di una conferma e sarebbe con me nello stabilire un alto tasso di meraviglia di fronte a tali visioni edeniche.
   Oh, il mio caro Mediterraneo, quanto sei presente, e sempre nuovo e cangiante, disteso in faccia a questi stupefacenti scenari che si chiamano Africa! Mai avrei potuto immaginarti più vivo là dove mi aspettavo di trovare cupe montagne e un ancora più perfetto mare di sabbia. Fu così che inaspettatamente, in un continente che mi ostinavo a chiamare esotico, ritrovai il sapore di un luogo già conosciuto, in cui avrei voluto ritornare o dove avrei voluto probabilmente fermarmi per sempre. Quella particolare luce del sole, quella leggerezza quasi allegra dell’arte, quel candido zefiro staccatosi dal fianco delle rocce calcaree, erano gli stessi di quelli che avevo sentito fin dalla più tenera infanzia. Una tenace lama di nostalgia avrebbe potuto impadronirsi di me, conducendomi fino alle lacrime e purificandomi dell’arido pane della conoscenza che tuttora mi dominava. Caro Mediterraneo! E ferma fede nel miracolo della vita e nell’attingimento della sapienza, miele che addolcisce gli strappi della consapevolezza e dell’evoluzione dell’età! L’Africa, dunque, mi riconduceva all’origine di tutto, mi saziava di tutto e tutto mi svelava!
   Nel mio viaggio avevo potuto esaminare una quantità considerevole di sorgenti e un numero altrettanto alto di pozzi. Tutto mi suggeriva che sarei arrivato alla più conseguente delle deduzioni e all’opinione che quel paesaggio carsico che mi si parava davanti non altro era che un grande rapinatore di acqua piovana, che poi trovava il modo per raccogliersi in bacini sotterranei, appena incontrava una piattaforma marnosa di contenimento. Tutto indicava che questa parte d’Africa avrebbe prodotto vino e frutta in abbondanza e che si sarebbe ripetuto il ciclo che permise una così prepotente dimostrazione di civiltà.
   Molti sono gli scettici, quelli che non punterebbero un tallero sulle virtù dell’agricoltura a secco e sulla conversione del deserto in giardini produttivi. Ci vorranno, com’è naturale, soldi e sudore a fontane, ci vorrà dedizione e abilità d’ingegno, ma ci si dovrà riuscire. È inutile, per ora, riaprire la strada carovaniera verso Sud, ci sono troppe difficoltà e mancano le giuste condizioni per un esteso e prospero commercio con l’interno. Non ci sono più schiavi e questo rappresenta la fine di un’epoca e la condanna di quel mercato che attraversò centinaia di chilometri, coinvolgendo file sterminate di uomini e di animali.



***

   In una situazione che appariva così favorevole, io, Consolino Trematore, mi ero convinto che la via africana poteva essere percorsa con un certo successo. Quella natura così invitante, quell’aria che somigliava all’aria di casa, quella terra che prometteva frutti e ricchezze mi comunicavano un qualcosa di famigliare. Non avevo in mente leoni, tribù selvagge, giungle inospitali con al centro Tarzan. Pensavo, invece, che mi sarei ritrovato in un bel podere, con stalle e magazzino, ad accudire campi rigogliosi e bestie mansuete. Prolungare il mio mondo contadino, trasformarlo in un lavoro prospero e produttivo, assicurarmi un futuro senza preoccupazioni, faceva tutt’uno con l’entusiasmo e la voglia ormai di partire.
   Mi imbarcai, un giorno d’agosto, sulla nave Vittoria lunga 197 metri. A Napoli eravamo stati salutati con onori almeno pari a quelli tributati ai tanti soldati partiti negli anni precedenti. Noi eravamo “soldati della terra”, “condottieri dell’aratro” e andavamo a vincere la “battaglia del grano”. Avremmo dovuto costruire un pezzo d’Italia, lì sull’altopiano cirenaico, portare il progresso, le macchine e le tecniche. Portavamo anche le nostre famiglie, la nostra esperienza, il nostro entusiasmo. Eravamo i pionieri di una nuova era e come i pionieri dovevamo tracciare la strada su cui avrebbero camminato le future generazioni.
   Il viaggio è tranquillo, guardiamo il mare liscio scivolare sotto lo scafo. La sera ci incantano le luci della costa che si avvicina: è l’Africa che ci viene incontro col suo abbraccio possente. Al culmine del giorno la temperatura supera i ventidue gradi. Man mano che navighiamo, siamo consapevoli che il caldo aumenterà fino ad identificarsi con la bianca apparizione di Bengasi. La notte ci ha accompagnato con una luna che sembra d’acciaio, distesa con i suoi pallidi riflessi sulla superficie. Poi all’improvviso abbiamo ritrovato l’alba, evidentemente quel lento addentrarsi in mare aveva assopito la coscienza. Ci coglie la fame di chi si sveglia desideroso di cominciare il nuovo giorno. C’è una confusione indescrivibile, dovuta alla calca che s’è venuta a formare per prepararsi a scendere. Qualcuno si sente male, qualcun altro si preoccupa di tenere il controllo dei figli ancora bambini. Si scende con gli occhi sgranati e il cuore in gola. Si incontrano gruppi di neri che recitano qualcosa che somiglia ad una litania. I dintorni del porto sono letteralmente presi d’assalto da commercianti di tutte le risme: insieme compongono un suk variopinto e molto ciarliero. Ci vorrà tempo per scaricare la nave Vittoria dove c’è il necessario per la nostra sopravvivenza. Ci faremo ammaliare un po’ dai quartieri della città araba, poi ci trasferiremo in camion verso Barce, Derna, Beda Littoria.
   Il primo contatto con l’Africa è di fame e di caldo: il ruggito del leone è lontano, la savana è un’altra dimensione, il deserto, se esiste, è simile ad un mare prosciugato. Le labbra sono ancora arse di salsedine e il corpo è intriso di sudore. Il viaggio avviene su terreni accidentati, abbiamo rischiato di fermarci man mano che si avanzava sul sentiero stepposo e pietroso. Finalmente ci hanno fatto scendere su un grande spiazzo e di qui ci siamo incamminati verso il villaggio agricolo. Il paesaggio tutt’intorno ci ricordava i paesi lasciati in Italia, gli ampi campi di grano e gli alberi che si dispongono in macchie nell’estensione delle conche. Questo era stato per noi un motivo nient’affatto secondario di soddisfazione e di conforto, giacché avremmo ritrovato in quelle terre sospese sul deserto un frammento di patria, un angolo privilegiato di memoria. Nessuno sapeva allora che l’Africa avrebbe segnato il nostro destino e ci avrebbe condotto al di là della nostra modesta immaginazione, facendoci toccare il fondo di una nuova sapienza. Andati per conquistarla, ne saremmo stati completamente travolti, imparando una lingua diversa della vita e un originale significato da dare alla nostra esperienza.
   Ci eravamo sistemati nelle case coloniche e ci trovavamo a poca distanza dal campo intitolato al Duca degli Abruzzi. L’esempio di Luigi di Savoia galvanizzava anche quelli che non si sentivano né esploratori né condottieri. Il Duca degli Abruzzi era penetrato nel cuore del continente nero e aveva fondato l’omonimo villaggio in riva all’Uebi Scebeli. Qui era stato come scoprire di nuovo l’America, avventurandosi in gole profonde e foreste inaccessibili, sfidando la morte con la premonizione di un trionfo inevitabile. Da un suolo rimasto per millenni inoperoso si sarebbero tratte linfe imprevedibili fino a pochi anni prima. La terra confermava in ogni suo lembo, in ogni sua particella, di essere capace anche in Africa di obbedire alla scienza e di sottostare alla volontà dell’uomo. Quel suo paradiso di stupenda violenza, di concitate passioni, di sublimi grandiosità, era plasmato in forme più vicine alla dimensione dell’uomo e aveva preso a parametro la colonna dorica e la successione ordinata dell’acquedotto di Roma. In Africa c’era la culla dell’umanità, ma la sua storia aveva saputo svolgersi nell’adolescenza e nella maturità dell’Europa più razionale, più sistematica e più metodica.
   Cosa ne sarebbe stato dell’Africa, se essa fosse stata in grado di sviluppare quegli ettari di terra che cominciavano a dare già i loro frutti? Cosa ne sarebbe stato del deserto, se tutta l’acqua del suo ventre abissale avesse potuto essere cacciata in superficie e offrire al mondo la ricca varietà di un’agricoltura in fiore? Correndo per un’estensione di milioni di chilometri quadrati il continente si era prosciugato sotto i raggi del Tropico del Cancro e aveva pian piano sepolto lungo le sue aride steppe e sotto un mare di dune mobili il ricordo di un altro pianeta, di altre civiltà che avevano prosperato sotto cieli immensi affidati ormai alla voce profonda del ghibli. Tutto il passato giaceva inerte, sferzato dal vento travolgente che dissecca e ischeletrisce ogni cosa, che svuota corpo e mente in un’unica rovina senza scampo.
   Il Piano di Colonizzazione fece arrivare sui fianchi del Gran Jebel migliaia di pionieri strappati al loro destino italiano. Contadini, artigiani, operai, braccianti, imprenditori che non avevano assolutamente previsto di essere trasferiti in un’altra terra e di doverla trasformare in una realtà favolosa e felice. Qualcuno aveva affermato che andare al Jebel era come andare a realizzare un desiderio chiesto alla Madonna di Lourdes. Non più andare in America, sopportare viaggi di settimane, sottoporsi ad umiliazioni feroci e a sistemi di vita schiavistici, non più imparare una lingua del tutto straniera in cui carro era la macchina e trucco era il carro, ma portare l’Italia verso la culla del mondo, godere il paesaggio famigliare tra monti e pianure – i pugliesi lo chiamavano “Tavoliere e Gargano”-, con l’ulivo, il carrubo, la vite e il grano, che sono le vere preghiere del nostro Dio. Oh, l’Africa, avrebbe potuto finalmente scalzare l’America, toglierci per sempre l’illusione di quella Libertà uguale per tutti, di quella sua fiaccola tesa ad illuminare un mondo molto più buio. La Libia, la Cirenaica, lì noi avremmo potuto approdare senza più soffrire il grande mare Oceano, senza più svuotare la nostra povera casa di tutti i suoi beni pagandoci un biglietto carissimo. Ecco, quel nome misterioso, quel nome di Libia, e quelle città che erano state ed erano Cirene, Bengasi, Derna, Barce, Apollonia: tutto questo poteva diventare il nuovo mondo cercato e ritrovato, la nuova meravigliosa Italia trasformata in una residenza felice, tra colline e mare riconoscibili. Ci saremmo fermati sulla Quarta Sponda, avremmo continuato a vivere questa cosa splendida che sapeva di un sogno leggendario. Avremmo continuato una vita mai prima immaginata, una vita fatta di fattorie funzionanti, di raccolti abbondanti, di commerci prosperi, di macchine e di trattori, di scuole e di chiese, di caffè e di cinema per divertirsi. Oh, sarebbe potuto tutto continuare e il nostro Grande Aviatore essere orgoglioso di noi, brandendo la spada dell’Islam in quella primavera radiosa che splendeva sui nostri edifici e sulla nostra fatica durata negli anni.
   Era il 24 ottobre quando poi salimmo prodigiosamente sul Vulcania che il Lloyd Triestino aveva messo a disposizione per un viaggio di piacere. Era la prima volta che mettevamo piede su una nave di lusso e ci sembrava di navigare davvero in un sogno: quei corridoi, quegli oblò, quelle cabine tirate a lucido, quegli arredi fantastici, quelle posate d’argento accanto ai piatti di fine porcellana! Era la prima volta che vivevamo quel sogno ad occhi aperti, che giravamo per le sale addobbate di specchi, di divani damascati, di lampadari in cristallo di Boemia. Era un labirinto rutilante, un’ebbrezza che ci penetrò in tutto il corpo rendendoci tanto leggeri da farci ballare il tango come provetti danzatori argentini. Poi fummo chiamati con il gong per la cena, fummo coccolati dai camerieri in papillon, invitati a mangiare cibi prelibati, lasciati fino a tardi a deliziarci di quella festa singolare. Così partimmo da Napoli, e così ci accolse Bengasi, con la gente in visibilio, con tutte le autorità civili e militari, con ogni comodità messa a nostra disposizione. Mai fummo tanto felici nella nostra vita, e mai credemmo di cambiarla più radicalmente e definitivamente. 
   Lessi qualche giorno più tardi in qual modo i giornali avevano fissato le puntate successive di quello sbarco vittorioso:

Bengasi è già lontana. I coloni salgono il Gebel, la terra rossa delle colline dove fu un giorno la gloria e la ricchezza di Cirene. Noi li precediamo andando di villaggio in villaggio, dove, innanzi alla terra che aspetta di rinascere, sorgono le bianche case intatte nate in un giro di pochi mesi, intitolate a nomi di gloria. I coloni di Cirenaica, partiti da Bengasi nel primo pomeriggio di ieri, hanno sostato questa notte nel grande accampamento di cinquecento tende preparate per loro a Barce, nel centro della piana che, attraverso il lavoro dei primi nostri coltivatori, ha dato quest’anno 130.000 quintali di grano. 

   Eravamo dei soldati, dei pionieri, degli eroi. Non eravamo più degli emigrati, ma finalmente i protagonisti di una nuova storia. Avremmo trovato ad aspettarci le case, le strade, l’acqua, la luce, gli attrezzi, le sementi, i bidoni di benzina, le latte di olio, gli animali nelle stalle, le scuole per i figli, il cinema per lo svago, l’ufficio postale per ogni necessità. Sembravamo un’armata in cammino, con gli ufficiali di comando e di collegamento, con le salmerie e le staffette. Come un esercito ci eravamo acquartierati, ergendo tende e sfilando brande, mentre tutt’intorno risuonava il fracasso dei mortaretti.
    Quando la mattina ci svegliammo, vedemmo quant’era grande il lavoro che era stato preparato. Da ogni parte dell’orizzonte era tutta una distesa di tetti, e se si fosse stati su un’altura si sarebbe potuta ammirare questa fuga prospettica di case e di strade, di campi squadrati e di macchine da lavoro, di canali e di pozzi che costituivano il sistema circolatorio di questo grande corpo.

***

   I piedi del Jebel sono tutti istoriati di campi e di case. I villaggi biancheggiano al sole e verdeggiano le larghe estensioni agrarie del “Battisti”, del “D’Annunzio”, del “Baracca”, dell’”Oberdan”. È una terra rossa, la stessa che fece in tempi remoti la ricchezza di Cirene. I coloni-pionieri hanno lasciato le cinquecento tende di Barce e si dirigono ad impossessarsi dei loro poderi, sono un esercito festoso ed ordinato. Sulla loro testa passano piccoli bastimenti di nuvole bianche, che procedono obliquamente e spariscono oltre il confine col mare. Quanto vorrei fissare quest’immagine per sempre, fermare il tempo di quella vittoria del lavoro e della speranza prima del diluvio, prima che il ghibli spazzi ogni cosa1
   Ricordo l’immagine del Grande Aviatore che saluta i coloni-pionieri già pronti sui camion che li porteranno a destinazione. E rivedo mio padre con gli stivali lucidi, il cappello di feltro, l’impermeabile, circondato da tutti i rappresentanti della famiglia, giovani, donne e bambini. Hanno il sole d’Africa che acceca loro gli occhi, gli abiti svolazzanti e le scarpe con una cinghietta leggera che ferma il piede. Alcuni sembrano sorridere, altri sembrano parlare tra di loro, altri in trepida attesa di riprendere il loro posto nel mondo.
    Tra poco la Grande Storia li travolgerà, ed essi conosceranno il sapore della sabbia. Come avvenne per l’antica Cirene, il tempo scalfirà anche la dura pietra conservando una monca memoria del passato. Ancora una volta, granello dopo granello, sole dopo sole, scomparirà il teatro di molte vite approdate a quella scena. Pian piano, inesorabilmente, la terribile forza dell’oblio saprà costringere alla resa i più resistenti tentativi di fermare il Tempo.




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