sabato 1 giugno 2013



La Generazione di Mezzo
Mostra Collettiva

A cura di: Gianfranco Mascelli

Artisti: Massimo Battaglini, Nino Bianchi (Ajossa), Cesare Bozzini, Tommaso Cascella, Giuseppe Ciccia, Giò Coppola, Immacolata Datti, Massimo De Angelis (demas), Marcello Di Donato, Gabriella Di Trani, Italo Garofalo, Alba Gonzales, Mario La Carrubba, Carla Leonelli, Gerardo Lizza, Manlio Manvati, Gianfranco Mascelli, Michele Mautone, Massimina Pesce, Teresa Pollidori, Elio Rizzo, Anna Seccia, Anna Torelli.

intervento critico Giorgio Di Genova

reportage Iolanda La Carrubba

(esca) video-presentazione: Quando il cielo era sempre più blu




Presso il lavatoio contumaciale
"quando il cielo era sempre più blu"

con la Rino Gaetano Band
l'autore Enrico Gregori
ed. Historica

reportage a cura di Iolanda La Carrubba

(esca)video-intervista: Davide Demichelis


           

Sarah Panatta intervista Davide Demichelis
regia di Iolanda La Carrubba

(esca) corti : Iolanda La Carrubba




video finalista per la prima edizione "Mamma Roma e i suoi quartieri" redatto dall'Isola del Cinema.

Video-clip: Vittorio Merlo


(ESCA) recensione- Iolanda La Carrubba

La fotografia e oltre di Chiara Mutti


Scatti indomiti e sinceri questi di Chiara Mutti che si rivolgono con istintivo affetto nei confronti del dejà-vous, raccontando l’intima riflessione attraverso il passaggio di immagini-istantanee, in riflessione con se stesse e completamente libere da stilemi precostituiti.  Qui non c’è timore di indagare l’ombra delle cose, l’impercettibile inquietudine nascosta dietro l’apparenza, non c’è neanche la neutralizzazione nell’uso del colore, anzi esso è presente anche là dove prevalgono attimi in bianco e nero,  che divengono portatori di tutte le cromie, in queste inquadrature abili ed intuitive.




Osservando a lungo un falso orizzonte nelle sequenze fotografiche, si avverte un’affermazione forte di sperimentare tecniche quasi supportate da un grande gusto estetico, lo stesso conquistato nel sapere osservare lavori alti, soprattutto quelli appartenenti al  mondo della pittura.
Si percepisce in qualche frangente, impressionismo e cubismo, così come un singolare confronto con ciò che oggi viene definita street-art, prevale tuttavia in queste atmosfere altre un afflato naturalistico, genuino che ricorda le belle fotografie di Frans Lantign.
Nel vasto mondo delle immagini di Chiara Mutti, il legame tra poesia e sguardo è forte, dichiarato e chiarificatore dove la liaison tra l’uno e l’altro mondo è il costante corpo a corpo, il bisogno di riunire platonicamente queste due metà che divengono perfette una volta ricongiunte. Gli emisferi dell’artista e della poetessa duonque, sono senza apparente necessità di analisi, mentre in verità esplorando questi spazi fatti di fitti fotogrammi di vita,  vi si riconoscono archetipi e tradizioni, culture e sentimenti.




Nulla è solo ciò che appare, c’è una danza della stasi che lenta si muove e respira in base l’avanzamento delle ore del giorno, è pura narrativa dello sguardo composta da poesia e percezione.
Anche se in alcune immagini si può distinguere la stessa impronta calcata precedentemente, si avverte junghianamente la contemplazione della società, il volerla svelare, capire, concentrare in questa saggia postura dello sguardo che riesce a superare il senso della vista fino ad approdare a quello della parola (parole-riflessione).

Iolanda La Carrubba



Vacancy- Domenico Donatone

I linguaggi della rabbia o la rabbia dei linguaggi?
di Domenico Donatone




Alla luce dei fatti accaduti in questi ultimi mesi, sicuramente gli spari di Luigi Preiti sono i più rumorosi. «Volevo uccidere i politici», ha dichiarato dopo l’arresto. Però si fa difficoltà a credere che tutto ciò sia il risultato di un clima d’odio messo in atto da un kamikaze del cambiamento politico. Il nome? Beppe Grillo. La prova? Il titolo in prima pagina de IlGiornale: «Il Grilletto». A parte l’allusione che è quasi diffamatoria, si può affermare che basta un uso spropositato del linguaggio per decretare un clima di violenza? Di sicuro, no. La violenza è accompagnata sempre da un cedimento che, al di là della condizione circostante, emerge arbitraria o collettiva, accompagnata a volte da disturbi psicofisici. Di certo nelle dittature il linguaggio è martellante, fa leva sulle coscienze affinché ci si convinca che è giusta la violenza. Anche i Futuristi non scherzavano quando sostenevano che bisognava "glorificare la guerra come sola igiene del mondo". Una purga nazi-fascista che si è avverata. Il punto è che la violenza è propria dell’uomo mentre il linguaggio è retorica. In molti casi dire significa non solo comunicare ma manipolare. Le dittature fomentano la violenza per meglio tenere compatti i ranghi. In letteratura le cose sono un po’ diverse, perché se è vero che si parla e si scrive non solo per dire e comunicare, ma anche per agire, non bisogna dimenticare che il linguaggio è traduzione. Una cosa detta è una cosa che viene subito tradita, cioè assimilata nel modo in cui si comprende. In questo senso il linguaggio non solo crea ma distrugge, per cui è anche pericoloso. Questo ce lo insegnano le Avanguardie storiche che intuiscono che il linguaggio, nel suo insieme, è dinamite. Non a caso nel 1909 i futuristi forniscono un gergo al Fascismo, mettono la loro intelligenza a servizio del potere e, nella palingenesi del cambiamento, forniscono l’alibi più forte alla dittatura: la causa è sempre giusta. In una dittatura il linguaggio è azione, nelle democrazie è partecipazione. In politica, invece, è compromesso, rinuncia a combattere. Che esista un linguaggio della rabbia è ovvio, così come è risaputo che i "vaffa" di Beppe Grillo, così oltraggiosi, sono la semplificazione di un programma politico che deve trasformarsi in azione costruttiva. Tra i linguaggi più pericolosi, quello della politica è al primo posto per apologia e per retorica inconcludente. I linguaggi migliori sono quelli dell’arte, della letteratura, perché rappresentano la rabbia dei linguaggi. Espressione di un sentire così profondo che diventa costruttivo: paradigma di una riflessione che non ha eguali. La rabbia dei linguaggi è sicuramente molto più costruttiva dei linguaggi della rabbia. È vero, anche Beppe Grillo non sa comunicare con quella cautela che la condizione storica attuale richiede, però non è vero che il suo dire è così aggressivo da confermare quanto scritto dai giornali, che il responsabile dell’odio sociale è un ex-comico che ha deciso di creare un movimento grazie ad una indiscutibile capacità monologante. Conviene confrontarsi sulla rabbia dei linguaggi più che sui linguaggi della rabbia. Questi ultimi possono essere sciolti in una dialettica di più ampio respiro. Cito Pasolini. Cito un intellettuale che conosceva molto bene la rabbia, tanto da titolare una sua poesia: «Perché non reagisco, perché non tremo | di gioia, o godo di qualche pura angoscia? | Perché non so riconoscere | questo antico nodo della mia esistenza ? | Lo so: perché in me è ormai chiuso il demone | della rabbia. Un piccolo, sordo, fosco | sentimento che m’intossica: | esaurimento, dicono, febbrile impazienza | dei nervi: ma non ne è libera più la coscienza. | Il dolore che da me a poco a poco mi aliena, | se io mi abbandono appena, | si stacca da me, vortica per conto suo, | mi pulsa disordinato alle tempie, | mi riempie il cuore di pus, | non sono più padrone del mio tempo. ||» Questi versi sintetizzano il vero clima che si respira. Ciò che si respira indubbiamente contagia i nostri polmoni, però la vera rabbia è data dal non essere più padroni del proprio tempo. Come si fa a lottare senza rimanere scontenti? Pasolini ci spiega anche questo. Ci spiega che l’unica lotta che può far sentire l’uomo ancora uomo e non una bestia è progredire col pensiero, conoscere, sapere che la rabbia che si fonde nel linguaggio trova ragione di dignità nell’azione civile. Che le armi, che anche Pasolini desiderava impugnare per afflizione, non consentono di tornare indietro, di pacificare il contratto sociale. Siamo in guerra, è vero, ma chi sa più combattere? La strada conveniente è ragionare.

(ESCA)FotoRacconto di sarah panatta

Tor(l)ino, un foto-racconto
parole e immagini di sarah panatta
Teatro regale, allestita enfasi di poligoni spezzati. Cromie tabù nella digressione mattonata dei primi edifici. Pura estensione frontale.

 
I portici in stazione escludono sovrapposti l’orizzonte fumoso. Varchi avvolti ponteggi e abbanchi un piccolo autobus, bagnato di piogge instabili. Se non è il 4 sarà il 51, o viceversa. Non c’è verso. Segui la meta con il corpo, abbandonato spettro vicino a passeggeri cortesi. E impari la traiettoria senza curve, traccia di condivisioni temporali, mimetico stallo di un’architettura di poteri immoti. Devi abituarti alla veduta angolare e al miraggio di un percorso squadrato, perenne ritorno. Dal ventre alle braccia, gomiti gomitoli, periferie come accrescimenti dimenticati in un passato prossimo e specchiato.

Quartiere arabo, un sabato sera annegato nelle omissioni dell’asfalto cedevole. Serrande ammiccanti e pronte alla chiusura, profumi troppo caldi infusi nella bruma di un maggio che sapevi contorsione di erotismi adulatori e già fuggiti. Arrendi, ti arrendi, stendendo i piedi su un materasso corto e respingente spogli il sonno delle sue virtù. La mattina è pasticceria cremosa, premio facile, e maratona verso il centro. Annaspi, dritta all’estasi verticale del futuro consumabile. Sfiori la Mole, con catture sfocate, reti per rare elargizioni di luce.
Appesa alla tua fida macchinetta a buon mercato balbetti scatti, scatti nell’oltre che ovviamente non possiedi. Dentro la cuspide di tendini e vuoto, sepolcro vigile, il museo del cinema e il nodo febbrile del tuo viaggio. Infantile sfogo, arpeggi sospiri lenti assorbendo le ombre del teatro delle figure proiettato nell’atrio triangolare. La brama ancestrale di auto riproduzione, di prometeica vivificazione tradita/tradotta nell’illusione del movimento bidimensionale. Macchine analogiche aderenti a formule esoteriche, pre cinema come algebra miracolosa di un al di là fecondo. Il cinema estroversione di raggi, immagine di immagini, dallo schermo alla teca alla foto-grafia. Dal poster che santifica leggenda al copione che ricalca, cavalca, sfida, avido e coraggioso, il terrore della morte. Elevando l’immaginazione a forza. Mentre Alien ammicca fosforescenti morsi di formaldeide, amore fanta-scientifico scivola nella sala delle lettere private, note di autor perdute. Ego frullati e ricomposti nella chiocciola della Mole. Trucchi del mestiere e ascensori per panoramiche mentali indotte. Irriducibile splendore di abisso nell’umana guerriglia tra ragione e sentimenti.
 

 
Vertigo che non vuoi lasciare, la Mole vomita nolente i suoi visitors, nella plaga del sole appena accelerato dal pomeriggio levante. Non puoi tornare dal limbo dei tuoi sogni.
 

Non vuoi capire perché, ma il 4 o il 51 o entrambe ti riporteranno a quel letto sfatto e dominerai ancora topografie consunte da post-apocalittica incuria. Domani. A est, tra Berlino bellica e Prenestine che ironizzano sulla segnaletica assente. Sulla carta dei territori sempre eguali e sempre ambigui, Torino, “giri a destra, poi a sinistra, di nuovo a destra, ma è meglio se chiede…nè”…Né. Un saluto dai binari, a questi tempi moderni.


EscaRomanzo (puntata) Sergio D'Amaro

Il Feroce Saladino

di Sergio D'Amaro

(Pubblichiamo con piacere una parte del romanzo breve L'allegra vita della signora Mariù', attualmente inedito.  Come ci avverte lo stesso autore "giocato su un finto diario d'epoca tra il '35 e il '60. Nel pezzo, l'incontro della protagonista col suo futuro sposo". Ndr.)
 
 
“La politica a Mussolini,
la vanga a noi,
la musica quando si può”
 
 
1938, primavera
 
   “…A-a-bba-a-ssa la tua ra-a-dio per fa-vo-o-r …i ba-a-ttiti del tuo cuo-o-r…”
   La radio suona leggera come la primavera che svolge velocemente il suo corso. Nell’aria c’è un richiamo di viole e di arance che si unisce alle brezze salmastre del mare. Non so se a ventitré anni si può essere padroni di qualche speranza. Io, nella situazione in cui sono, felice di questa musica, di questo tempo ridente, di questi profumi, ho diritto alla speranza. Oggi sento di essere nel pieno dominio della mia giovinezza, perché sento che la realtà è con me, il mondo gira attorno a me e io sono una stella pina di luce. La natura può farmi rinascere e farmi risplendere come il primo giorno sulla terra.
   “… A-a-bba-a-ssa la tua ra-a-dio per fa-vo-o-r…”
   Tra un mese mamma e papà festeggeranno le nozze d’argento. Io potrò indignare il mio nuovo vestito che mi ha cucito Lina, la nostra sarta di fiducia. Discretamente scollato, con una cintina rossa e molti pois: come a dire “Svegliatevi sensi, camminate svelti nella mente dei ganimedi e accettate di buon grado ogni più piccolo refolo di libertà”: roba da far invidia alle ‘Tre Grazie’ e a ‘Donna Clara’, che pure non scherzano con l’estetica e i cardiopalmi da innamoramento multiplo. Specie ‘Donna Clara’, con quel suo Arturo irraggiungibile, fatale, amico di Faust. “Ieri Arturo mi ha guardato. Ho letto nei suoi occhi che mi desiderava”. Oppure: “Arturo non mi guarda. Gli ho fatto qualcosa, ho offeso la sua sensibilità? Oppure, ancora: “Se mi portasse un mazzo di rose, cadrei ai suoi piedi”. Ma Arturo non guarda anche quando vede e non porta mai fiori, anche se, dicono, ne è appassionato. E allora?
   Facendo i conti, mamma e papà si sono sposati nel 1913. Un anno assolutamente insapore e inodore, eppure è l’anno che precede la Grande Guerra. Due anni più tardi sono nata io e questo è assolutamente importante. Molte cose sono successe nel frattempo e hanno cambiato il mondo e l’Italia. ‘Carducci’, il professore d’italiano, ce l’ha detto e ripetuto fino alla noia: “Guardate, ragazzi, che il mondo è cambiato. Non viviamo più nel secolo ordinato dell’Ottocento, dei sentimenti nobili, delle grandi imprese. Oggi solo un uomo è stato capace di far rivivere il buon tempo antico ed è il Duce, nostra guida e nostra unica speranza. Con lui abbiamo ritrovato il senso smarrito dell’esistenza e la dignità della Nazione”.
   Uscite dalla scuola, abbiamo dimenticato le parole di ‘Carducci’. Il mondo è ugualmente interessante senza essere un modello di ordine o ligio ai più nobili ideali. Perciò non rimpiango l’Ottocento, i suoi abiti a cupola, le candele tremolanti sul far della sera, le carrozze a cavalli. A me sembra che un tale atteggiamento ce l’abbia ‘Mimì Bluette’, con le sue nostalgie romantiche e le musiche che invadono lo spirito.
   Non mi piace, d’altronde, neanche l’Impero, l’ossessione di diventar grandi ad ogni costo, la gara di chi ha i muscoli più duri. Qui ha ragione il signor ‘Manzoni’, il ragioniere in pensione del piano di sotto che sa tutto sull’autore del “Cinque Maggio”. “Manzoni approverebbe” e “Manzoni non approverebbe” sono le due frasi più solite che si possono ascoltare dalla sua bocca educata all’equilibrio del Gran Lombardo. “Manzoni non approverebbe” dice il ragionier Leonardi “questa vergognosa corsa alle armi che sta facendo l’Italia, questo scialo di soldi, di uomini e di mezzi per mantenere occupata qualche terra africana arsa dal sole”.
   Il 24 giugno è arrivato nel nome di San Giovanni. Zia Anna ha curato la lista degli invitati e il menù della cena che sarà offerta. Escluso l’agnello, che io non vorrei mai sacrificato ad una festa, tutto il resto mi va, fino all’affogato e ai liquori. Ma non sarebbe stata meglio una Saint-Honoré? Nella lista, dopo ‘Donna Clara’ e le ‘Tre Grazie’ (la cui presenza ho difeso con forza), ho visto con meraviglia il nome di un certo Felice Tirinnanzi. Mi sono informata e ho scoperto che si tratta dell’amicizia più recente di mio fratello Giuseppe. Forse è uno di quegli intellettualoidi che a lui piacciono tanto, un po’ spocchiosi e molto attaccati ai loro grammi di sapienza. Però non ne sono sicura, potrebbe essere una sorpresa.
   La giornata si è annunciata molto calda, già fin dal mattino. Mamma ed io siamo corse ad innaffiare i gerani, temendo che non avessero abbastanza acqua per resistere. Paura come sempre infondata e un po’ pericolosa giacché i fiori preferiscono rinfrescarsi la sera. Non ho potuto evitare, purtroppo, di versare inavvertitamente mezza della caraffa che avevo in mano fuori dal vaso più piccolo. L’acqua ha ruscellato giù finendo sulla spalla di comare Nunzia, che ha un negozietto di alimentari. Ha guardato su e ha solo salutato, dicendo forse fra sé “Potreste stare pure più attenti!”.
   La strada è già animata di ambulanti, di facchini, di garzoni. Sono sbucati anche i bambini per giocare a rimpiattino e a palline di vetro sulla piazzetta con al centro una fontana. Lontano, attraverso l’arco del Castello, guardo per un momento il mare e scorgo una vela piccola piccola. Dalle case vicine con i balconi aperti le radio accese si sentono come uccelli cinguettanti. Riconosco qualche nota di “Sentimental”, di “Tornerai”, di “Bambina innamorata”. Il sole mi sembra entrare più generoso nelle stanze, come se quell’ora, quei suoni, quelle visioni, si dovessero fermare in una fotografia staccata dal tempo. Clic… e questo 24 giugno fermo sul calendario per sempre. Clic … e mare, vela, piazzetta, fiori, voci, canzoni, uniti per sempre in un abbraccio eterno di sensazioni.
   Ho visto, passando nella camera da letto, il vestito di seta che mamma indosserà stasera. Ho indovinato a chiamarla qualche volta nel mio amor filiale ‘Greta Garbo’. Quella stoffa preziosa, i fini disegni stilizzati, la scollatura audace, mi dicono che arriva da lontano. Papà l’avrà scambiata con una grossa partita di arance a Trieste o l’avrà commissionata a qualche fido murlak di Spalato. Sta di fatto che è qui e aspetta intorpidito un po’ di fresco della sera.
   Nel pomeriggio l’aria s’è fatta pienamente estiva. Abbiamo fatto un pranzo contenuto, come chi teme giustamente una cena fuori del comune. Malgrado questo, stiamo rispettando tutti l’ozio della controra. Distesa sul lettino già mi prende un forte impulso di vagheggiare. “E ondosi drappi e gonne agili e bianche, / come piume di cigno, e argentei veli / … Tutto, qual per incanto, a sé davanti / vide la bella fata; e il cor di donna / con precipiti palpiti battea”.
   Vaneggio, è il caldo o l’attesa della festa, quell’incalzare di emozioni contrastanti che vanno dall’entusiasmo alla depressione, dall’esaltazione per ciò che proverò all’effimero tempo concesso a tutto questo. La bellezza di mamma sarà come “la rugiadosa candida camelia, de’ suoi vivi smeraldi appena schiusa”. Le brillerà negli occhi “un recondito lume, le guance avrà di rosea luce giovanil”. Sarà innocente e voluttuosa, tentatrice e nostalgica.
   E anch’io, quando saranno trascorsi venticinque anni del mio matrimonio, potrò vestirmi di seta e trionfare tra gli amici e i parenti che ammirano ancora la mia bellezza. Anch’io, anch’io… quante volte mi ci sono messa in mezzo e mi sono identificata nella Regina Cristina o in Mata Hari. Io, la ‘Bella Sulamita’, l’allegra e mite Mariù.
   Finalmente l’orologio a pendolo ha scandito le otto. Dopo zia Anna, ‘Donna Clara’ e i nonni, sono arrivate le ‘Tre Grazie’ e due dei ‘Quattro Moschettieri’, accompagnati dal nuovo amico di Giuseppe. Felice Tirinnanzi è studente, appena iscritto, di Lettere. Niente male Felice, con quel vestito tagliato decentemente, gli occhiali senza montatura, le scarpe di capretto. Così a prima vista, sembra potersi assegnare alla genìa degli intellettuali, capaci di almeno una metafora ogni dieci parole. Avvicinandomi per la presentazione ho scoperto che usa Tabacco d’Harar in quantità sufficiente a stordire una fanciulla in fiore. È forse questo, insieme a certo modo gentile, direi quasi raffinato, di porgere il discorso e ad una timidezza di fondo mal dissimulata, che lo rende subito accettabile.
   Alle nove e un quarto siamo tutti a tavola a mangiare la seconda portata di carne. Il vino e l’eccitazione di trovarsi insieme hanno già fatto moltiplicare le conversazioni rendendole quasi tutte banali per chi le ascolta. Suona il campanello. È ‘Manzoni’ che porta i suoi complimenti e regala a papà, guardando ammirato le sete di mamma, una copia del suo saggio sulla villa di Brusuglio. Non più uno studio dei luoghi, ma addirittura uno studio degli angoli: c’è l’elenco completo dei ninnoli del comò, un inventario delle piante ornamentali e delle penne (sì, proprio penne) usate da don Alessandro e rimaste intatte sulla sua scrivania. ‘Manzoni’ se ne va con un mezzo inchino davanti a mamma e finendo di masticare un confetto al rosolio.
   ‘Donna Clara’, chissà perché, è la più eccitata. Scodinzola con i ‘Moschettieri’ e si alza spesso per abbracciare affettuosamente i nonni seduti. Mi pare che la sua attenzione vada anche al nuovo venuto, dal momento che anche a lei piace il Tabacco d’Harar. Arrivano altri telegrammi di auguri e tra di essi c’è quello di zio Andrea. Scrive: “Altri cent’anni di prosperità e di gaudio – Stop – Andrea”. È laconico fino all’avarizia, oppure va di fretta come la sua America.
   Alle dieci zia Anna si è appartata con l’album familiare e lo ha sfogliato attentamente. Io ne ho approfittato subito e ho chiesto cose che non avevo mai chiesto.
   - I nonni –mi ha detto – si conobbero in chiesa e restarono fidanzati per undici anni. Una sola volta nonno sfiorò con la mano il viso di nonna. Tuo padre Carlo e tua madre Carmela si amarono per nove anni. Carlo era sempre lontano e correva voce che non fosse molto fedele. In cambio portò un anello di fidanzamento che era una favola: quattro brillantini su un cuore d’argento.
   - E zio Mario – le ho chiesto all’improvviso.
   - Oh, zio Mario! – ha fatto con un sospiro che le ha fatto sgranare gli occhi e alzare i mantice del petto – lui era un signore. Era impiegato del dazio e sapeva cantare intere romanze della “Bohème” e del “Rigoletto”. Fumava soltanto i sigari toscani… Ecco vedi … -indicandomi l’immagine di zio Mario – questo è lui a ventisette anni davanti al suo ufficio. Il vestito che indossa è lo stesso che io preferivo per le passeggiate domenicali verso Solarizzo e Pescante. Bastava una distrazione di Carmela o di nonna Clara e lui mi inondava di baci, sollecitando sempre più spesso la prova d’amore. Zio Mario è rimasto l’unico amore della mia vita … Ah, ma guarda, qui sei tu a dieci anni alla prima comunione, ricordi?
   Mentre zia Anna parlava, io mi ero distratta con Felice Tirinnanzi che mi guardava con tre occhi e implorava almeno un acconto di compiacenza. Fingevo di ascoltare mia zia, che ormai andava a ruota libera sull’onda dei suoi ricordi e da un personaggio tirava un altro e un altro ancora. ‘Petronio’ stava con due dei suoi ‘Moschettieri’ a discutere animatamente e ogni tanto dava l’intesa agli amici di osservare felice. Avevano fatto bis di polpette e dei contorni di insalata e avevano in mano il quinto o sesto bicchiere di vino. Certo, erano già brilli, con o senza il consenso di papà.
   Quest’ultimo e mamma apparivano più che compiaciuti. Papà aveva regalato a mamma una porcellana di Boemia, cosa che solo un avviato commerciante di agrumi poteva permettersi. Gli sposi giubilati si guardavano, poi si parlavano all’orecchio e ridevano. Erano pieni di ciance e di tenerezze, tanto da far raddrizzare qualche ruga ai nonni e farli sentire più giovani.
   - Quando farò le nozze d’oro – annunciò papà in tono solenne – promettetemi che ci sarete tutti. Allora io sarò in pensione e avremo tanti nipotini che ci faranno regali. Levate con me il bicchiere di spumante e brindate alla nostra salute.
   E giù gli applausi dopo che avemmo bevuto.
 
 
***
 
   Felice Tirinnanzi è diventato Felice e quindi il ‘mio’ Felice. Il passaggio è stato semplice, come semplice l’incontro e scontato il destino. Lo trovo affezionato, tranquillo, romantico. L’impressione dell’intellettuale serioso e spocchioso è svanita immediatamente. Appena ha potuto aprirsi con libertà ha detto, riportando parole che solo lui ricorda, che “da tutta la persona tralucea formosità d’amore e venustate”. Appena mi ha visto “negli orecchi sentì cupo tintinno, fremito dilettoso in ogni vena, inesausto calor di fibra in fibra”. Io che al linguaggio del melodramma mi sciolgo come una fontana, non ho saputo resistere. Anche zia Anna se ne andava in brodo di giuggiole per il suo bel Mario, cantore di romanze. In me evidentemente scorre lo stesso sangue. “Chi può significar dei baci primi l’entusiasmo, l’impeto, la gioia, l’estasi nuova, eterea, inenarrabile?”. Il mio “virgineo labbro” si dissetò alla scodella di fresca rugiada della bocca di Felice, che continuò a inondare il mio naso di Tabacco d’Harar.
   Felice è buono, gentile, romantico, un concentrato di cavalleria medievale. Era destino che lo incontrassi e che l’amassi.
 
 
***
 
 
   “…A-a-bba-a-ssa la tua ra-a-dio per fa-vo-o-r…”
   Ascolterò la radio, nella mia nuova casa di sposata. Una Telefunken. La casa di Felice e mia, naturalmente. Su di una poltrona Frau. Un quadro, una stampa, un manifesto dell’azienda agrumaria di mio padre. La biblioteca di Felice, tanti da Verona, Pitigrilli, Delly. Le foto di Nazzari e di Cervi. Sere da gustare insieme, emozioni da provare, esperienze da condividere. Poi, signor Felice e signora Mariù, sulla Balilla a goderci le vacanze e le gite. Molte visite a Solarizzo, col mio cappello-ombrello, il foulard, la merenda dei miei ‘Romolo e Remo’. Una famiglia-tipo, felice, spassionata, giovanile. Guardare il mare con Felice e i bambini, indicare la prima vela che colpisce l’occhio, intridersi delle brezze saline e delle essenze dei giardini. Inseguire vanesse e macaoni, cullarsi in eterno sull’altalena, catturare lucertole, riconoscere fringuelli e cinciallegre. Poi scendere giù lungo la mulattiera stretta tra macere e sterpaglie per sboccare alla spiaggia scossa dal grecale. Io e Felice, romantica e romantico.
  
 
***
 
 
   Sicuro che Felice sia veramente cattolico?
   Un giorno che ascoltava una trasmissione alla radio, mi è parso propenso all’uso del saluto romano che ha molto più di militaresco che di cristiano. Lui non approva del tutto questa mia iscrizione all’Azione Cattolica. Io credo in questa decisione e in questi ideali di solidarietà. Anche perché, caro Felice, ho l’impressione che il mondo voglia andare verso qualcosa di strano, qualcosa di molto pericoloso. Guarda l’Austria e quell’Hitler che ha una fame insaziabile.
   In fondo a quella tranquillità, a quei sentimenti romantici, ho il sospetto che Felice nasconda un’anima da ’Feroce Saladino’. Io la ‘Bella Sulamita’ e lui il ‘Feroce Saladino’? Usa profumi, incantesimi, gentili promesse. Può cambiare e anch’io posso cambiare. Ma il gioco va fatto, la scommessa va tentata.
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Racconto Esther Messina

Calzamaglia

di Esther Messina

 
Zurigo vive sotto una spessa coltre di nuvole
un aereo impiega almeno quindici minuti
per bucarle con il suo naso
e finalmente salutare il sole di giorno e la luna di notte
 
Zurigo formiche che lavorano in posti grigi
in silenzio si contano tutti i soldi del mondo
quelli più sporchi vengono raccolti in grandi lenzuola bianche portate sulle rive del Limmat
che bagna veloce la città
lì lavati da abili mani
poi appesi ad asciugare sugli alberi della città
come bandiere
 
Zurigo è quartieri bene
dove le spazzature vengono raccolte
in sacchetti d'oro e su vassoi d'argento
portati ai cassonetti di ricercato design
di cui la città è infestata
 
è quartieri Bohémien dove tutto si mescola a tutti
gente da lontano porta un po' della propria arte
mélange di dialetti remoti e disimparati
così la città diventa un bel figlio bastardo
ristoranti etnici gallerie d'arte teatri
musica club vernissage eventi su eventi
un fiume di locandine
si susseguono come fastfood
 
città very gay sehr Schwul
quindi molto libera
free
gay qualcuno dimentica significa happy
felice
in questa città nessuno si tappa le orecchie
quando sente questa parola
ne si nasconde sotto inutili coperte
 
case abitate da chiunque voglia realizzare un sogno
a patto di rispettare regole pesanti come pietre
e sopravvivere a lunghi e bui inverni
e timide estati di nuvole
 
un posto molto diverso da quello da cui sbucava fuori Elena
era stato difficile per lei salutare quel paesino
scaraventato sull'Etna che vive lento e bruciato dal sole
su di un triangolo di terra che sopravvive
annegando
a tutte le correnti dei mari del Sud
ma andarsene a volte è l'unico modo per sopravvivere
 
da dieci anni oramai il tram bianco e blu
la scarrozzava da un posto all'altro della città
a raccogliere visi nuovi ed esperienze
 
gli aerei fieri della croce rossa stampata sulla coda
la portavano leggera come una piuma su una mano
da un polo all'altro del mondo
senza il minimo rispetto per l'orologio biologico
e le abitudini che noi uomini per inerzia ci inventiamo
 
da dieci anni lavorava dentro quelle supposte volanti
una vita doppia
una oltre le nuvole e una sotto di esse
 
Elena abitava nella Kreis 4
finestre colorate con luci rosse e belle signore
che mostrano le tette come diamanti dal gioielliere
Josephstrasse 25 poi Stauffacherstrasse 147
finalmente Zwillingstrasse 14
 
strade di sogni e baltracche
di turchi così come di americani svedesi thailandesi
senegalesi indiani whatever
 
Elena si lasciava sconvolgere dal meltin pot zurighese
da quelle strade aveva imparato molte cose
per esempio a sorridere ad una prostituta
che faceva sotto casa un nervoso su e giù sul marciapiede
forse brasiliana
andava con gli uomini
ma guardava le donne
 
Elena le sorrideva sempre
e molte cose si chiedeva
chissà se l'amore di una donna le interessava
ma poi si rispondeva che la piccola corvette
che ogni donna si porta dietro nelle mutande
la lasciava abbastanza indifferente
 
dal giardino di casa sua sventolavano colorate bandiere tibetane
quasi un avviso per chi oltrepassasse la soglia
un monito
attenzione qui vivono utopia e sogni non calpestare
grazie
 
la camera degli ospiti
è una porta sempre aperta ed un letto da rifare
a turno la cuoca giapponese di Londra
l'insegnante di yoga svedese
il trombettista californiano di un famoso circo
Holly spogliarellista di New York
tutto il mondo dietro una porta
 
divideva quella casa ricavata da un'ex fabbrica
con una ragazza mezza svizzera e mezza africana
Sally
era stupendo vederla preparare la migliore fonduta di Zurigo
e poi in abiti colorati salutare la madre
con canzoni e turbanti della tradizione africana
 
una sera arrivarono una Calzamaglia una valigia
e una valanga di musica
Elena accolse l'ultimo arrivato con un grande abbraccio
ed un come è andato il viaggio bevi qualcosa
benvenuto
 
il ballerino dal nome che adesso nessuno ricorda
veniva da Perth
aveva attraversato in volo tutti gli oceani
per arrivare in Europa e portare in giro
uno spettacolo di danza sperimentale
 
 
ballava e ballava
a casa
prima e dopo le prove
alla fermata del tram
capelli ricci dal taglio irregolare
grandi occhi neri forse ispanici
 
Elena a casa lo seguiva nei suoi balli
specialmente dopo cena
si inventavano danze inattese
con i calici di vino bianco in mano e i cappelli
lei sul tavolo
lui saltando da una sedia all'altra
inventando inaspettate coreografie
si divertivano
non la smettevano di ridere
 
Calzamaglia una notte aspettò Elena
sulla soglia della camera
era da qualche giorno che la guardava
con occhi come specchi
magra e con un piccolo dolore che nascondeva dentro
ma che si poteva quasi toccare
indifesa e irresistibile
come una bambina
 
Elena tornava da casa dopo ore passate a salutare passeggeri
in tutte le lingue
tra una turbolenza e l'altra
risolveva problemi di ogni forma e odore
una volta a casa spariva sotto la doccia
poi a nanna in compagnia delle orchidee
che facevano da cornice al suo letto
una tazza di te bianco purissimo
comprato a Shanghai
e qualche libro strampalato scritto in aramaico
 
lui come un cretino
rimase diverse sere ad aspettare
che lei capisse
Elena capiva ma faceva finta di niente
perché l'attesa dell'inizio di uno spettacolo
è più emozionante dello spettacolo stesso
 
lasciò che la stessa scena si ripetesse per diverse sere
lui sulla porta
lei dopo la doccia mezza nuda attraversa il corridoio
il rumore di una porta che si chiude
il click della luce e ciao
 
stufo di aspettare un giorno la invita alle prove
inizialmente indecisa tra un vestito e i leggings
si decide per il vestito
mette un velo di matita nera agli occhi
e l'inseparabile lucidalabbra
 
nell'ombra delle luci del teatro
lo segue in ogni passo
fu commossa dalla sua bravura e tangibile follia
mentre ballava notò che una libellula
lo seguiva lieve
delicata
forse con un occhio lui amava gli uomini
e con l'altro le donne
 
incuriosita
dopo la doccia
decise di entrare in quella calzamaglia
di imparare qualcosa di nuovo da lui
 
si fece coraggio prima di sciogliersi tra le sue braccia
per salutare l'ombra di quell'uomo che la seguiva da tempo
da troppo tempo
avrebbe dato una bella spolverata all'anima
per cadere pesantemente nel presente
salutando al vento ogni ricordo
che la teneva legata ad una fitta ragnatela di emozioni
passate
trascorse
perse
finite
 
dopo la lezione d'amore ricevuta e impartita
Elena raccoglie i frammenti di pudore sparpagliati
sul pavimento sul letto sulla sedia
e silenziosa se ne torna nel suo letto
si può amare qualcuno che non si conosce
ma dormire al suo fianco è un'altra storia
 
quando Calzamaglia partì
Elena abituata a vedere arrivare per poi andar via
le persone dal suo cuore
divenuto un albergo
gli apre la porta e lo aiuta ad uscire di casa
con le ingombranti valige
 
in un soffio il vento se lo porta via
nessuno sapeva per quale meta
né dentro quale donna o uomo
quella calzamaglia di applausi e locandine
si sarebbe insinuata
 
lei non gli aveva chiesto niente
non chiedeva mai niente
era fatta male
Elena era fatta così
 
riprese l'insolita vita
sregolata e Bohémien
con i suoi ritmi e colpi di scena
pronta a lasciarsi vivere
aperta a tutte le possibilità
che la vita proprio perché è Vita
offre

un giorno inaspettato di vento e di foglie
alla porta bussa un ballerino fuggito da una tournée
da un teatro
da una coreografia
con ballerini rimasti sospesi in aria in arabesques
nel vedere sparire con mille pirrouettes
il protagonista dalla scena
 
in un attimo l'odore di quella ragazza
che mai niente chiedeva
il suo cuore per strada aveva gettato.