“L’AMORE È BRINA…”
Risogna meglio il sogno
e ingrana la favola!
(Per i quadri, le amenità oniriche
o soavità ancestrali, di Lina Morici)
C’è un ricordo autobiografico di Jean Cocteau (uno strano vicolo inconscio e oscuro di rimembranza, nel suo adorabile Mistero laico, il libello dolce e accanito dedicato nel ’28 a De Chirico) che mi ha sempre svelato ed evocato una Roma diversa e perduta, notturna, metafisica, onirica, pre-post-surreale… non importa ora definirla con stilemi e morfemi intellettualistici. Ma una città, comunque, che solo per intervalla insaniae, cioè nella pause concesse o rubate alla Dea Realtà, ci è dato di assaporare e tornare pienamente a godere…
«… A Roma, dove nel 1917 lavoravo a Parade, non guardavo Roma. Non avevo occhi che per il mio collaboratore. Abitavamo in un albergo che, di dietro, si slarga nel suo rotondo giardino e che, sul davanti, dà su Piazza del Popolo. Impossibile vedere i capolavori. Bastava che decidessimo di visitare una chiesa o un palazzo per imbatterci in un divieto.
Di notte, uscivamo dall’hôtel Minerva, dove abitavano le ballerine russe, e attraversavamo una città fatta di fontane, di ombre e di chiaro di luna.
Tutto cambiava scala. Visitavamo le quinte di Roma. Vedevamo come è disegnata.
Di giorno, Roma mi confonde. Il Foro esibisce il disordine di una stanza dopo il passaggio degli svaligiatori. Non restano che bottiglie scolate, bicchieri, cassetti vuoti, cassettoni sventrati, biancheria sparsa. Il meglio è stato portato via.
Non conoscevo De Chirico. Mi avrebbe aiutato a decifrare Roma, soprattutto vuota, al chiaro di luna, se avesse potuto distrarmi dallo spettacolo di Picasso. …»
Qualcosa di molto simile – mi è qui caro confessarlo – mi accade sempre coi quadri di Lina Morici… con la sua pittura che solo una banalità maldestramente modernista, e la consueta, agilissima fretta liquidatoria, potrebbero sbagliare a definire, allontanare e scaricare insomma come “naive”, eccetera. Quando si ha paura che qualcuno o qualcosa si attardi – nottetempo o in alta parabola meridiana – a raccontarci della stanza, delle stanze o delle piazze prima dell’arrivo nefasto degli svaligiatori, dei devastatori azzimati, facile relegare quella poesia o quei poeti in punta di pennello nella gentile e trascurata categoria degli artisti naifs…
Un equivoco che a tratti è andato perfino di moda, quando si scambiò con costoro, sindacalizzati quale fenomeno di costume, perfino un genio iracondo e lunatico, come Ligabue… Riprendete in mano la splendido poemetto che gli dedicò Cesare Zavattini, per capirne la tempra e dissipare, in genere, ogni forma di aggiramento “tendenziale” dell’ostacolo artistico. Ostacolo – intendiamo – perfino con la sua schietta semplicità, e/o sacrosanta diversità…
E onore comunque a Bombois e Metelli, Ligabue e Rabuzin, Grandma Moses e Mario Urteaga, Hector Hyppolite e Morris Hirshfield, Bernardo Pasotti, Gino Covili, e tutti ma proprio tutti gli istintivi ma ispirati partecipanti ai “corsi rurali di pittura” dei villaggi di Hlebine e di Kovačica (ex-Jugoslavia), ovunque le pregiatissime Garzantine dell’Arte decidano alla fin fine di collocarli…
In Lina Morici – riprendo anch’io, ma volgendole a un eterno presente, le parole fatate e incoscienti di Cocteau – tutto cambia scala… visitiamo le quinte di Roma… vediamo come è disegnata… decifriamo Roma, soprattutto vuota, al chiaro di lune…
Prezioso strano viatico, insieme lirico e musicale (Debussy), inopinatamente pittorico (un De Chirico alleato a Picasso? La metafisica che in un sogno vezzeggia quasi il cubismo!…).
Ma Lina ha di questi (strani) meriti e di queste (impensate) risorse – sempre totalmente impensate, anzi sottaciute!
Una città fatta di fontane, di ombre e di chiaro di luna…
“La “Barcaccia” magari di Piazza di Spagna, quando le si abbeverano più i piccioni timidi e tubanti, che i turisti sguaiati…
Come una continua, spalancata e inesorabile quinta scenica, o immenso sfondo vitale di teatro – Parade dell’anima! In cui ci muta e si balocca di gioia il medesimo punto di vista, la provvida via di fuga, dribblando anche la geometria, e contemplando magari la morale e la marmorea effigie della Piramide Cestia dal punto di vista d’una baldanzosa colonia di gatti, miagolanti fra le margherite; il Colosseo e l’Arco di Costantino dal punto di vista impigrito della sosta e del riposo dei cavalli delle “botticelle”, sì, i ronzini meno spesso floridi che macilenti, al servizio degli snob, sempre anticipatici turisti agiati! Poveri Nestori – o come altro si chiamino – appesantiti da strepitose salite o discese fra i pur mitici sette colli romani…
Nelle belle tele dolcissime della Morici, invece e per fortuna, i “destrieri” impigriti delle carrozzelle, attendono pigramente, la copertina che li riscalda, fra moine di turisti colti e ciance fiorite degli innamorati di sempre, gli innamorati per sempre: tutti i cugini, gli amici, i parenti o gli epigoni, diciamolo pure, di Monsieur Penet, dei suoi Valentino e Valentina: i quasi si baciano sempre con splendore meridiano sotto la luna, e pudore notturno, serica velatura lunare nella gloria benedicente del pieno, immanente mezzogiorno…
Naturalmente – ecco il vero incanto – la tavolozza cambia, trasmutano i colori, metamorfosano sia le forme che i luoghi, i visi e i monumenti – assimilandosi all’eterna, doppiamente etica Morale del Sogno…
Doppiamente etica, perché così facendo ella salva sia la notte che il giorno, rinfrancando, o meglio affrancando e la luna e il sole dai propri rispettivi usi e costumi, riti triti e attriti, insomma luoghi deputati, ufficiali e sottufficiali, brigadiere e maresciallo...
Così i più bei Luoghi Comuni di ciò che usiamo chiamare Roma, e che celebrano i baedeker dei turisti, qui spariglia l’incanto e se ne crea uno tutto proprio, perfettamente eguale e totalmente diverso. Lina Morici ingrana la quarta, pardon, la favola!
E la sua “Serenata” avviene tra due ragazzi, con cani e gatti al séguito, fra Santa Maria in Cosmedin e il Tempio cosiddetto di Vesta (in realtà dedicato ad Ercole Vincitore – sullo sfondo, quale ottima metafora, della non poco artefatta Bocca della Verità)... In cielo, stormi e righe di rondini come partiture di note mai composte ma certo perfettamente udibili, intonate da ogni perfetto cantautore del proprio cuore.
Romamor… Romamor… Romamor…
Che strano tempo – che vaga, amatissima luce!… questa che a mezzanotte forse s’inventa una seconda alba d’intimità e promessa, che rima il rosso autunnale delle foglie d’albero col rosa di eterni fiori rinascenti, perituri e caduchi d’incanto… E i verdi, i verdi prendono tono e nerbo dalla terra, dai suoi prati d’amore e lo portano, si direbbero, in cielo, in questi cieli che il verde l’inazzurrano, lo fanno mare d’oblio e pascolo romantico, valle aerea e tangenza proibitiva, domestica, d’ogni passeggiata tra fidanzati e morosi, coniugi o fidanzati d’eterno…
La pietra stessa sembra celeste e i visi d’oro, i corpi rosa, le Muse inquietanti ma ora acquietate – avverando in contemporanea il Beato Angelico, il giovane Picasso, e il miglior De Chirico, quello che ispirò a Cocteau quel trattatello irriverente e conciliativo (ma con l’intelligenza – che mette per fortuna tutti in sfregio e in sospetto)…
Parigi col suo eterno sogno di Peinet – o favoloso mondo di Amélie – detta a Lina, eterna bambina, angioLina, sbarazzLina – ogni quadro come in fondo una buona azione (e qui si allinea al delizioso fortunato film di Jeanne-Pierre Jeunet con Audrey Tautou). Un film, attenzione, il cui titolo esatto, era nell’originale Le fabuleux destin d’Amélie Poulain… Il destino favoloso, il favoloso destino…
Non è forse definitivamente favoloso, diremmo eroico, il destino pittorico di un pittore cosiddetto naif (= “ingenuo”), costretto ogni giorno a salvare, svelenire, disinquinare la nostra povera realtà, con la parabola, la buona azione, l’“inquadratura” provvisoria e permanente di un sogno/quadro, la quadratura di un sogno, un quadro per sognare, sognante e vero, irreale e schietto!? Oh, Lina carissima – Linuccia! – che hai già nel nome il tono e il destino insieme d’una moglie e d’una figlia, nei celebri versi di Umberto Saba che svegliano e ninna-nannano mezzo nostro ’900!…
Tu sei come una giovane, / una bianca pollastra. / Le si arruffano al vento / le piume, il colle china / per bere…
Ma attenzione! Le cose per fortuna si complicano, s’inquietano, s’incoronano di sacro suadente mistero…
Tu sei come una gravida / giovenca; / libera ancora e senza/ gravezza, anzi festosa…
E il mistero stesso si complica, come ogni mistero che si rispetti:
Tu sei come una lunga / cagna, che sempre tanta / dolcezza ha negli occhi, / e ferocia nel cuore. / Ai tuoi piedi una santa / sembra, che d’un fervore / indomabile arda…
Ma usciamo dal seminato e dalla poesia – e torniamo nelle favole, il vero e definitivo regno di Lina Morici. Le favole che si rispettino e ci abbisognano… Ogni dipinto di Lina, certo lo è, fin dai titoli, domestici e utopici nella stessa misura. Un taxì a Paris, Serenata, Roky sogna la Piramide, L’arco di Costantino, La prima luna di marzo… Artista di prim’ordine, catalogata nella “generazione anni ’40”, che dopo aver messo a punto gran tecnica come ceramista, si è volta finemente anche all’olio e si è, diciamo così, specializzata in scenari abitualmente fantastici… domestici e lunatici… Con tanto di curriculum DOC e mostre a Roma – nel cuore pulsante di via Margutta – e Lugano, Londra e Zurigo, Liegi e Bruxelles (“Nemo propheta in patria”…), Como, Spoleto, Mantova, Cosenza, Terni, Lauro, Ostiglia…
Ma occorrerebbe la prosa poetica del miglior Charles Baudelaire, in quello che è forse il più inquietante, il più sorprendente dei suoi saggi, ma ben pochi onorano e riveriscono d’attenzione – “Morale del balocco”:
«… Il bambino gira e rigira il balocco, lo gratta, lo scuote, lo sbatte contro le pareti, lo getta a terra. Di tanto in tanto, gli fa rifare i suoi movimenti meccanici, talvolta in senso inverso. La vita meravigliosa si ferma. Il bambino, come la folla che assedia le Tuileries, fa uno sforzo supremo: finalmente riesce ad aprirlo a metà, è il più forte. Ma dov’è l’anima? Qui cominciano lo stupidimento e la tristezza. …»
Si ha infatti sempre paura delle favole!, delle notti assolate, dei mezzogiorni di fuoco lunare, dei sogni a occhi aperti, dei favolosi destini d’Amélie… degli eroi pacifici e degli amori che restino eterni, perché, in fondo, fidanzati, prolungati a vita – come si prolunga, si proroga e si propaga, Lina carissima, ogni vero sogno… o anima del balocco!
Che adotta or subito, per didascalia lirica alle tue carezze pennellate, invece dei versi adusi e canuti di Saba, il “Sogno d’estate” del più dolce, sempiterno, Alfonso Gatto amoroso:
Trapeli un po’ di verde
il limone, il sifone,
il piccolo portone
della pensione,
trapeli il blu,
anche tu
vestita col tuo nudo rosa,
ogni cosa amorosa.
Amore è amore
liscio alla sua foce.
Un’alpe zuccherina,
l’amore è brina.
Che sogno averti vicina
Notturna, fresca, sottovoce.
Notturna, fresca, sottovoce, è sempre questa pittura poetica che chi non accetta in fabula registra come “naive” – e passa oltre.
Chi lo sa se quella sotto la Torre Eiffel è solo neve, zucchero in spolvero o petrarchesca brina dell’anima, inconscia manna d’esistenza?…
Né sogni né bisogni. Mentre invece il mondo non s’accorge che proprio il meglio è stato portato via. Senza divieto, assieme a tutti i divieti.
(Roma, inizio Aprile 2013)
Plinio Perilli
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