venerdì 1 marzo 2013

(Esca)Intervista a Franco Fracassi, "The Summit"


EscaIntervista: “The Summit. Genova. I tre giorni della vergogna”, ne parla il regista Franco Fracassi

“Perché?” Domanda insolita e indigesta nel Paese dei festival bon ton, della propaganda perenne e dell’omertà culturale. Noi non sentiamo, non vediamo, non chiediamo. Con buona pace della coscienza civile che latra solitaria in un cantuccio di memoria conferita in discarica, tra i rifiuti indifferenziati. Ma qualcuno cerca di farla. La differenza. Come?

Scavando nel passato, in mezzo alla melma che nessuno vuole esplorare, tra i mostri che nessuno vuol ridestare. Per spiegare o almeno pungolare il presente. Per arrabbiarsi e fare arrabbiare. E’ la missione di Franco Fracassi, giornalista not embedded, reporter da 25 anni, professionista della militanza negli hot spot del mondo. Dalla Somalia al mistero Ilaria Alpi, dal Sudafrica decolonizzato nel rugginoso post apartheid, all’11 settembre, dall’Iraq all’Afghanistan. Dentro le ferite della Storia e dentro le storie, a caccia di verità, refusi, non detti. Al centro dell’inquadratura molti “perché” da sbattere in faccia al muso ottuso dell’opinione pubblica ipnotizzata.

Di porto in porto, Fracassi torna ad un evento imbrattato di sangue e asserragliato nello stesso immobile caos del 2011. Torna al G8 con un’inchiesta che misura cronologicamente, connessione su connessione, tra fotogrammi, atti processuali, conversazioni telefoniche, filmati, piantine, i fatti. Solo i fatti, intercorsi tra il 19 e il 21 luglio 2001. I cortei pacifici, la “zona rossa”, le mani bianche alzate, il ritmo convulso delle botte, i black bloc, l’omicidio di Carlo Giuliani, la retata-mattanza della Diaz, i processi abortiti, la giustizia tradita, i diritti decapitati, le scalate al potere di insospettabili/insospettati. The Summit. Genova: i 3 giorni della vergogna, dal 21 febbraio in dieci sale italiane, reduce da vari festival in giro per il globo (certo più aperto e libero dello stretto Stivale), dalla Berlinale 2012 – sezione “Panorama Dokumente”, al Bifest (Bari Film Festival), dal Genova Film Festival, al Festival di Rio, fino al festival “I’ve seen films” (solo per citarne alcuni). Girato insieme al collega Massimo Lauria, compagno di lavoro e di progetti nella casa di produzione indie Telemaco e nel quotidiano on line popoff.globalist.it.

The Summit ricostruisce l’interezza del G8 di Genova 2001. Documentario incalzante in cui sembra riconoscibile una precisa estetica dell’immagine. Anche nella scelta di disegni e animazioni. Che ruolo hanno? Penso al mezzo busto femminile, che pare mimare, prima dei titoli di testa, “L’urlo” di Munch…

In effetti per l’immagine a cui ti riferisci abbiamo esattamente pensato a “L’urlo” di Munch. Volevamo una serie di quadri per illustrare situazioni, emozioni. Volevamo trasformare alcuni fotogrammi in quadri. Abbiamo pensato a quale messaggio dovessero comunicare, dopodiché abbiamo individuato il pittore, l’artista giusto per esprimere quel messaggio. Il fotogramma della donna all’inizio del film voleva trasmettere senso di disperazione, per questo ci siamo riferiti a Munch. In un’altra immagine invece, che mostra un corteo di studenti, ci siamo rivolti allo stile di David, che ritraeva scene di battaglia.

Quell’“urlo” è impresso negli sguardi di alcuni testimoni da voi interpellati. Parliamo di loro. I protagonisti civili. I manifestanti e le vittime, dai pestati nel macello della Diaz, alle persone trattenute e brutalizzate nella caserma di Bolzaneto. Come vi siete avvicinati, umanamente e professionalmente, quanti hanno risposto o si sono rifiutati?

Alcuni di loro non hanno accettato di parlare con noi, non volevano più rivivere quell’esperienza. Per rintracciare i testimoni civili abbiamo fatto delle ricerche, individuato nomi attraverso i verbali e poi fatto lunghe conversazioni con molti di loro per convincerli a rilasciare una testimonianza nel documentario. Tra quelli convinti, alcuni successivamente davanti alla telecamera accesa non riuscivano a parlare. In ogni caso li abbiamo intervistati tutti due volte, ed erano davvero tanti, non saprei dirti quanti.

Testimoni in divisa. Poliziotti, carabinieri, forze dell’ordine. Nel documentario appaiono membri dei Sindacati di Polizia. Ma quelli che stavano in strada, in assetto di guerra, che operavano fermi e pestaggi…siete riusciti a sentirli?

Il problema, per i poliziotti, è che la disponibilità a parlare non dipende da loro ma dal Ministero. Quindi abbiamo potuto intervistare soltanto i sindacalisti. Ci sono stati comunque dei poliziotti, dei carabinieri, molto disponibili, che si sono fatti intervistare in forma privata, ma non avendo poi ottenuto l’autorizzazione dal Ministero non abbiamo potuto rendere pubbliche le interviste fatte.

Torneremo tra poco ai poliziotti.

Testimoni, documenti, telefonate, video. Le tappe e la difficoltà, anche gli ostacoli, se ne avete incontrati, del processo di raccolta dei materiali.

Per gli atti processuali nessun problema, in quanto si tratta come tutti sanno di atti pubblici. Per fortuna per i vari processi, anche se parziali, abbiamo avuto accesso a tutte le conversazioni telefoniche e alle trasmissioni radio. Ci siamo rivolti all’archivio che si trova a Genova, tra gli altri. Abbiamo analizzato i documenti che sapevamo di poter reperire, alcuni perché ci erano stati indicati, altri li abbiamo cercati anche senza la certezza, ma con l’intuizione che esistessero, durante la nostra indagine. E non ci siamo sbagliati.

Per le immagini? E’ chiaro che le avete selezionate come collante e insieme come evidenza visiva del vasto puzzle ricreato dal film.

Per le immagini abbiamo impiegato molto tempo. E’ stato un aspetto fondamentale e complicato della realizzazione. Avevamo migliaia di ore da vagliare e dovevamo guardare tutto, senza esclusione e senza distrazione, a caccia dei minimi dettagli, soprattutto di quelli che non sapevamo di dover cercare…

A proposito di particolari. Ne resta uno fisico, brutale, ricordato ancora con un’ansia palpabile da alcuni vostri intervistati. L’odore del “testosterone” e gli sguardi luccicanti dei poliziotti, quasi “infoiati” dall’odore del sangue. Quale addestramento psicologico e tattico hanno ricevuto gli “sbirri”, che sono invece apparsi animali allo sbando, disordinati, avventati? Un disordine montato?

I poliziotti, i carabinieri, ce lo hanno raccontato. Ma quello che hanno detto fa parte del materiale che non abbiamo avuto l’autorizzazione ad usare nel documentario. I carabinieri ad esempio. Nei sei mesi precedenti al G8 sono stati rinchiusi nelle caserme. Venivano date loro le licenze e poco prima di uscire gli venivano revocate, improvvisamente. Poi la alzate notturne, inattese e quasi quotidiane, anche con il freddo e il maltempo. Le marce forzate con zaini pesantissimi, anche nel fango. Un continuo lavaggio psicologico. C’è stato un giovane carabiniere che ci ha confidato come avrebbe desiderato, se avesse potuto uscire liberamente, di unirsi ai civili, ai ragazzi che manifestavano pacificamente in piazza. Beh, ci ha detto che dopo quei sei mesi in caserma, senza uscire, era in condizioni mentali tali che se gliel’avessero messa davanti avrebbe riempito di botte persino la madre.

La “strategia del terrore”. Una strategia di gestione del G8, evento spartiacque come tu stesso affermi, costruita secondo l’esperienza dei summit mondiali antecedenti (da Seattle a Goteborg a Napoli). Un disegno internazionale mirato, tessuto da governi e intelligence, per controllare la folla e scardinare processi di partecipazione democratica?

L’obiettivo era far passare tutta una serie di provvedimenti politici ed economici che avrebbero trasformato un intero modo di concepire la vita dei paesi dell’Occidente. E che dovevano favorire un intreccio di poteri, tra banche, multinazionali, ecc. Per fare questo servivano una serie di azioni che prendessero le mosse da ogni vertice. Soprattutto si è creata un’unica volontà politica, a livello internazionale, per destabilizzare i movimenti democratici, pacifici, e togliere credibilità e forza alla piazza.

Il ruolo dei black bloc. Infiltrati dalla stessa polizia come asseriscono molti intervistati?

Tra i black bloc c’era di tutto. Possiamo distinguere tre macro gruppi. C’erano black bloc veri, “genuini”, se così possiamo dire (individui che agiscono contro specifici simboli del capitalismo, istituti di credito, grandi catene di negozi e di ristorazione, ndr). C’erano persone arrivate da varie parti soltanto per approfittare dell’occasione di distruggere, avendo mano libera, e tra di loro ultras, neonazisti ecc. Poi, la terza categoria, i black bloc militarizzati, addestrati alla guerriglia urbana, alla devastazione, tra i quali anche ex agenti.

C’era una coreografia, una catena di comando politica-servizi segreti-polizia-black bloc?

Sì, possiamo dire che è stata una grande recita...

La tragedia di Piazza Alimonda, la morte di Carlo Giuliani, tanti dubbi in sospeso. In quanti su quella camionetta, chi ha preso la colpa di chi, l’arma ferale. Insomma, ucciso da un proiettile “fantasma”?

Nessun proiettile fantasma, Carlo un proiettile l’ha preso davvero. Su questo non c’è dubbio. Il grande problema è che non esiste una verità ufficiale. Esistono delle immagini, testimoni. Ma anche tante versioni diverse. In Italia la verità viene spacciata per fantasia, da noi succede così. L’altro problema sono i processi. In Italia finché non si pronuncia la Corte di Cassazione con una condanna non c’è niente di definitivo. Quindi si può dire che gli ostacoli per tirare fuori il “torbido” dalla storia di Carlo Giuliani sono due: la mancanza di un’inchiesta vera (ad esempio non è mai stato recuperato il proiettile dal corpo; Placanica, il carabiniere autoaccusato, ha ritrattato molte volte) da un lato, dall’altro la nebbia generale che continua ad avvolgere il G8 tutto. Compresa la nebbia creata dalla stampa che non ha saputo fare il suo dovere di inchiesta.

L’altro pasticciaccio, l’operazione condotta dalla polizia nella Diaz, un’irruzione e un massacro, prove false, presunti terroristi da sgominare, persone inermi mandate in coma. Come avete ricostruito un evento così delicato? Avete preso, direttamente o indirettamente, le distanze dal film di fiction di Daniele Vicari, Diaz. Dont’ clean up this blood?

Per ricostruire i fatti è stato senz’altro fondamentale l’archivio di Mark Covell (il giornalista inglese indipendente pestato fuori della Diaz fino al coma  durato 14 giorni, ndr), il suo super video che raccoglie gli avvenimenti di quella notte. Diaz, il film, l’ho visto due volte. E mi è piaciuto in entrambe le occasioni. Credo sia un’opera importante. Per quanto riguarda la ricostruzione interna alla Diaz. La prima volta che l’ho visto è stata brutale, mi ha colpito la vena quasi tarantiniana della violenza. La seconda volta mi ha fatto meno effetto, è stato meno traumatico. Dopodiché bisogna vedere l’aspetto del contorno del G8, come evento totale. Il film è stato, legittimamente, concentrato sulla Diaz. Ma fa vedere anche altre scene attinenti al G8 e questo è un aspetto che non mi è piaciuto invece, perché è stato trattato in modo superficiale. Prendiamo le figure degli stessi black bloc, sembrano dei poveretti, restano poco chiare per lo spettatore.

Le domande senza risposta che bruciano e che rivolgi a tutti, politici, società civile, responsabili a piede libero ecc., con The Summit. E perché dobbiamo vedere proprio questo film sul G8?

Tante le domande senza risposta. Una su tutte: chi ha ucciso davvero Carlo Giuliani? E’ ora che tutti, giovani e non, capiscano che gli eventi del mondo vanno visti nella loro totalità, non in maniera isolata, perché tutto si connette. Purtroppo accade il contrario. Ogni evento, compreso il G8, viene osservato singolarmente, cosicché certe tragedie sembrano compiute senza ragione da un gruppo di persone impazzite in quel dato momento e luogo. Credo che la prima cosa da fare sia rispondere a questa domanda: perché? Perché è successo tutto questo? La gente deve abituarsi a riflettere e a capire che queste storie sono molto più complesse di quanto sembrino, intrecciate tra loro. Il film va visto perché è la prima volta che viene condotta un’inchiesta sul G8 di Genova, ed è necessaria se si vuole cominciare a capire.

Missione ardua, far “capire”, quando in Italia è così difficile trovare una distribuzione capillare. Le opere che aprono gli occhi, nel bene e nel male, non “passano”. Anomalia italiana? Quanto costa restare indipendenti?

L’anomalia italiana? Funziona tutto in base alle conoscenze, e il controllo politico è ferreo. Noi non facciamo parte di nessun “clan”, quindi restiamo fuori dai circuiti, e in Italia nessuno ci fila. La cosa peggiore è che sei invisibile. Il tuo prodotto non interessa. Non viene proprio visto. Per essere indipendente devi contare solo sulle tue forze, con il vento che spira contro. Finanziarsi è una scommessa, accedere ai fondi è difficilissimo. C’è anche chi riesce a vivere con i documentari, non siamo noi di certo.

Ne vale la pena Franco?

Sì. Ne vale la pena perché, credo, siamo responsabili del nostro destino. Se il mondo è sbagliato e continua su questa strada è anche colpa nostra.



Sarah Panatta

Nessun commento:

Posta un commento