domenica 1 settembre 2013

(esca)Racconto - Chiara Mutti


L’Isola



 

E volto pagina, l’ultima pagina, chiudo il libro. Eppure me ne resto appesa, intrappolata ancora nella storia, come se un eco me  ne continuasse a mormorare nell’orecchio una canzone, una di quelle canzoni del passato che si fanno tristi nel ricordo. Le storie che vivono nei libri sono incanti, possono aprirti nuovi mondi o semplicemente schiudere un varco nel tuo muro, un muro fatto di omertà e silenzi. I miei silenzi li ho lasciati nelle grandi stanze di un convento dal pavimento rosso di mattoni, dove ogni suono si ripercuoteva nello spazio intorno, nei volti cerei snaturati dal dolore, nelle ferite aperte e sangue delle croci, negli occhi vitrei di madonne lacrimose dalle luci fioche. Passi nel vuoto del silenzio, passi di mille passi.

Anche quando ero libera di correre in giardino, unica amica di giochi di me stessa, anche allora io percepivo quel senso di lontananza dalla vita,  jolly caduto via dal mazzo delle carte, rompeva l’illusione e mi fermava il cuore. Fuggivo spaventata a ripararmi tra le mura, come se al chiuso quella “cosa” potesse smettere di scolorirmi il viso. Era la mia Isola da cui aspettavo navi in rotta verso il molo, ma la sua nave non attraccava mai. Mai.

Dei primi mesi di quegli anni ricordo solo qualche passo; scene, immagini così confuse e indecise nel tempo da non sapere più bene a chi appartengano: un grande chiostro, l’orto dei frati francescani, la grande sala, il fuoco nel camino. Mio fratello ed io: piccole ombre danzanti sul muro, sguardi persi oltre il muro. Il fuoco! Capace di dare la vita e di distruggere, distruggere, distruggere velocemente ogni cosa nella sua corsa guizzante e impazzita assorbendo la vita in un terribile crepitio; come se le cose inghiottite al suo passaggio lanciassero un ultimo grido disperato. Me ne portavo dietro il calore e un’aria trasognata, quando era l’ora di andare, perché anche se fratello, rimaneva sempre maschio e non ci era concesso di dormire nello stesso monastero. Me ne restava l’odore di fumo nei capelli ad onta di qualcosa, anch’essa biasimevole, che non si doveva fare. Iniziò allora un tempo dilatato in cui le azioni e le giornate potevano rovesciarsi le une nelle altre come le onde nel mare. In un convento la vita è scandita dal suono di una campanella, da orari fissi, regole, divieti, brevi ma esaltanti concessioni. Nella stagione buona, quando l’aria si addolciva, alle “ragazze del collegio” era permesso fare lunghe passeggiate, dopo la messa, alla domenica. Si andava per i prati, verso la collina di San Pietro in fila indiana, subendo i motti strafottenti dei ragazzi per cui la nostra somma, numeri di un pallottoliere, era invariabilmente sempre uguale a zero. Noi scalciavamo sassi e ridevamo desiderando un’altra storia, un cuore che finalmente si potesse usare. Nella gioia di quella libertà concessa c’era sempre il vento e un grande albero nel cielo tiepido di primavera. Le gemme soffici spuntavano dai rami neri a fiocchi, cariche di promesse;  c’era un richiamo in quell’aria, un odore dolce velato appena di malinconia. Promesse vane: la vita si ripeteva uguale, arresa a se stessa.

Poi sono arrivate le giornate fredde in cui l’oscurità mi sorprendeva quando alzavo lo sguardo dai libri alla finestra, nello studio dove passavamo tutti i pomeriggi dell’inverno. Era un’aula di scuola la mattina, e conservava quell’odore un po’ stantio di corpi, di banchi vecchi e vecchi libri. Il freddo  penetrava dentro le mie ossa, sotto la maglia di lana rigida e infeltrita per il troppo uso. Silenzio, brusio, silenzio. Sssssst! Il tempo sembrava non passare mai. Ma passava, le “sante feste” arrivavano a intervalli regolari come scherzi del destino, quando ritrovare i miei fratelli era una gioia che prevedeva il suo dolore di distacco, di arrivi, di partenze, di stazioni, di saluti svaniti dentro il fischio di un treno. Perduta in lontananza, oltre un bivio di binari, la nostra vita continuava, decisa a tavolino da qualche luminare della psiche. Per il nostro bene si enunciava che l’unione sarebbe stata disastrosa, quale fantasmagorico teorema! Meglio da soli, si, meglio soli a combattere i fantasmi della sorte. Pure quel mio mutismo ostinato, con cui mi difendevo dalla gente, non era sano; me ne facevano una colpa a volte, quando qualcuno se ne risentiva imbarazzato, certo non si doveva, certo. Me ne sarei dovuta vergognare!

Era il mondo degli adulti che si scontrava con il mio, la facciata ipocrita che non mi rassegnavo a rispettare. Gli adulti. Oh! Gente perbene. Mi ospitavano nelle loro case, carichi di cosiddetta carità cristiana ed io li ripagavo con una timidezza temeraria che, a quanto pare, appesantiva l’aria della festa. Mi sarebbe bastato che non facessero più caso a me, allora come un topolino spaventato forse sarei uscita dalla tana; piano piano, con circospezione, studiando gli angoli in cui sarei potuta andare a riparare. Mi sarebbe bastata la penombra, mentre loro mi puntavano una torcia, mi sarebbe bastata una parola. Una parola per sapere che potevo stare, semplicemente identica a me stessa, nell’angolo che mi ero scelta senza dovermi vergognare. 

Con le mie compagne la mia corda un po’ stonata vibrava un’altra melodia, quel mio essere diversa mi bastava. Costituiva anzi la mia forza con cui sfidavo il mondo, un mondo che chissà dov’era; fuori, da qualche parte, nel riflesso del sole, nel sorriso di un ragazzo che potrebbe essere stato il mio. Si…in un’altra dimensione, se fossi stata bella, se fossi stata bionda, se fossi stata. La mia vita nata fiume scendeva gorgogliando nel suo letto limaccioso, ora placido e tranquillo, ora pavoneggiandosi irruento, acquistando nella pendenza velocità e fragore, con la rabbia degli spruzzi cristallini a mescolarsi col biancore muto della spuma, vapore fatto aria. Parole di piuma e vento.

Se non fossi stata qui, su questa pagina, non sarei mai esistita. E ora che sono qui mi chiedo cosa sono stata: tanto di tutto e niente. Ma quello che sono ora lo devo alla mia Isola e a quella nave che non è passata; lo devo al freddo, al fuoco, al vento e ad una nuvola che si è fatta pioggia. Lo devo al fiume e al grande albero che mi ha cresciuta.

 

 

 Chiara Mutti

1 commento:

  1. Un racconto bellissimo e doloroso che mi ha commosso ed emozionato. Un grido lancinante e dolcissimo che è arrivato dritto al cuore.."un cuore che finalmente si potesse usare".. Hai reso molto bene quella condizione psicologica, la solitudina, la rabbia, la paura..parole di piuma e vento...
    Grazie
    ciao
    Monica

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