mercoledì 1 gennaio 2014

(esca)Vacancy: Sarah Panatta


Vacancy. I sogni segreti di Ben Stiller

A cavallo di un americanissimo “vorrei ma non posso”, anzi non è “mio”

Di Sarah Panatta

“Ground control to Major Tom…”. Si entra e si esce dalle stesse porte, ispezionando ammirati le stelle da una capsula lontana. Major Tom vive sulla soglia, ferisce lo spazio-tempo, lo spazio del suo tempo e cavalca la barriera della paura. È la sua “stranezza”. Il volo gravitazionale intorno alla cecità coatta del mondo. Non importa dove sia arrivato, ma che lo abbia fatto.

Parafrasando ancora l’eversione ironicamente poetica del giovane Bowie – al di là della sua intenerita e allora quanto mai tempistica e perfino cinefila “space oddity” – quando decidiamo di vivere i sogni che tappezzano la nostra “vita segreta”? Che alimentano il nostro Ego vero e inguaribile, quasi sconosciuto, perché inascoltato, avvizzito sotto cumuli di reticenze, convenienze, colpe deviate.

Può un editor che viaggia verso il licenziamento superare la modernizzazione ferale della sua rivista, il torpore del proprio ceto, entrare vittorioso nel cosmo 3.0 con un’identità integra e nobilitata e scrivere da solo il proprio giorno attraversando il planisfero come pedina impazzita, da ghiacci a rocce, per finire dietro l’uscio della donna che già aveva “trovato”? Nonostante il titolo originale accattivante (dal racconto letterario del scritto da James Thurber nel 1939) e la complicazione tautologica del titolo italiano, I sogni segreti di Walter Mitty non risponderà alle domande succitate. Perché anche Ben Stiller, attore protagonista e regista (ripescato e sostituito al prescelto gargantuesco Jim Carrey, dopo quasi venti anni di tira e molla delle major produttive, e di numerosi rimaneggiamenti sullo script iniziale) resta a galleggiare in orbita, e non può “farci niente”. Scientificamente educato all’intrusione della spettacolarità artificiale nella visione intima dell’autore/fruitore e sostenuto da un budget da cine-panettone hollywoodiano, Stiller ruba troppo margine alla sua demenzialità sana e deliziosa, dandosi anche qui al polpettone da botteghino facile.

Scenari HD da desktop, fotografia tronfia, laccatissima dal siderale nitore del digitale, barocchismi di una regia che diventa puro surplus. All’estro naif e sardonico del piccolo grande nerd, Stiller/Mitty è/ha lasciato pochissimo agio, tranne i sipari da parodia fumettistica e il lampeggiante sguardo sospeso di un uomo/autore/attore che non è ancora completo. Carne allenata dell’uomo medio americano che evade continuamente dal suo steccato tarlato pur volontariamente inchiodato all’idea rassicurante e orgogliosa dello stesso steccato. Stiller si avvinghia al ruolo di regista-interprete debordato e asfissiato, abbandonando la brillante possibilità di una scrittura che saprebbe scarnificare il contemporaneo con foga e grazia. Stiller conosce l’uomo-torta pasciuto da affetti disfunzionali, l’uomo-grafico da statistica pre elettorale, l’uomo-topo da auto familiare nel cortile ben potato. Eppure non si lancia mai dalla navicella, non sgrana gli occhi sull’ipocrisia di sogni imperialistici nazionali e sulle miserie titubanti dell’uomo-medio reale. Abbraccia l’ennesima storia retrospettiva, all american, zuccherosa e adatta ai toni retoricamente imbalsamati di un nuovo (mal imitato) Capra.

“Can you hear me Major Tom?”

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