martedì 1 ottobre 2013

(esca)Racconto-Giusy Morrone


TRAIETTORIE RICORRENTI

 

La piccola Lucia alzò svogliatamente il capo destandosi dal suo torpore abituale. Aveva consumato le sue ultime ore di solitudine appoggiata al paesaggio piovoso. Alzò il sipario su qualcosa che oramai le era drammaticamente familiare e dai vetri ingrassati da chissà quanti anni di teste sonnolenti, scorse la stessa natura di sempre avvolta dalla bruma mattutina.

Pensò che non avrebbe voluto fermare i suoi sogni e vederli morti in un binario cieco, come quel vagone abbandonato. Le somigliava quel riparo maleodorante. Dimenticato. Morto. Vivo solo per lei che lo rendeva tale. Lei ne aveva bisogno. Ma chi aveva bisogno di lei?

L’aria era frizzante, credette di scrollarsi di dosso quell’olezzo di pelle ammuffita correndo tra sterpaglie fangose e pezzi di ferro arrugginito mentre la pioggia indifferente le lambiva il viso. Ma quell’odore oramai faceva parte di lei, della sua giovane pelle. Si abbassò sulle rotaie che di li a poco iniziarono a sibilare e come era solita fare seguendo traiettorie note, si nascose dietro l’angolo più remoto della vecchia stazione in attesa del grande balzo fulmineo che l’avrebbe condotta direttamente nel gabinetto di un treno qualunque di passaggio.

Salì e se ne restò così, in penombra, in quello spazio angusto, finchè non sentì le rotaie fischiare, il treno rallentare la sua corsa e i soliti interminabili minuti di silenzio che duravano sempre un po’ più di tutti gli altri. Aspettò ancora. Quando il silenzio le fu vicino tanto da poter distinguere soltanto le voci in lontananza, aprì lo sportello e sgattaiolò giù.

Attraversò frettolosamente il caos della stazione centrale, lasciando cadere di quando in quando i suoi pensieri ora su una vetrina, ora sui milioni di libri ordinatamente disposti nelle librerie. Ora i suoi occhi carichi di vita vagavano tra gli odori di pizzerie, take away cinesi e centri benessere. Quell’euforia propria della giovinezza le imponeva di sentirsi immortale, invincibile, nonostante la sua condizione: la sua vita varrà dieci, cento, mille vite. La slot machine avrà infinite combinazioni vincenti e lei trionferà  acclamata rotolandosi nella saporita soddisfazione del successo.

La solita traiettoria di quella settimana si svolse portandola in orario sugli scalini della basilica. Entrò, impiegò qualche istante ad abituare gli occhi al chiaroscuro sacro e non appena inquadrò l’anziana donna, intenta a sedersi ad uno dei primi banchi, un po’ come il mirino di un cecchino quando inquadra il bersaglio, si precipitò di nuovo in strada.

Pensò che aveva a disposizione più o meno due ore,  iniziò a correre urtando ora un turista, ora un bambino, ora due amiche intente a  fare shopping, come una molecola impazzita che più prende velocità più aumenta la sua potenza.  Aveva fatto bene a sceglierla anziana, era stanca di scatolette, cibo pre-cotto e surgelati: nessuno sapeva più cucinare! L’uragano Lucy si spinse ingrandendosi, fino ad esplodere esausto nell’oscurità di quel portone.

Soltanto il suo cuore agitava il silenzio, sconvolto oramai dall’ennesimo nuovo timore: solo quindici giorni prima aveva  letto sulla pagina malconcia di un quotidiano, di un quartiere di Tokyo abitato dai cosiddetti Otaku, individui rifugiati in una realtà parallela,  che trascorrono giorno e notte davanti a computer, tv o fumetti  manga, senza mai uscire di casa e facendo a meno di qualsiasi tipo di rapporto sociale con l’esterno. Temeva di essere sorpresa da uno di loro in versione occidentale rintanato in casa davanti ad un monitor.

Divorò gradini sotto ai piedi così come la fame le stava divorando lo stomaco e giunta davanti alla porta chiusa, che avrebbe potuto rappresentare la sua salvezza o la sua condanna, estrasse dal giacchetto le chiavi sottratte abilmente in portineria, e scivolò dentro.

La piccola Lucia ispezionò nervosamente l’appartamento. Ad ogni passo la sua ansia si diradava fino a scomparire definitivamente nell’ultima stanza: la cucina. Aprì il frigo ed iniziò a trangugiare qualunque cosa fosse commestibile, poi si portò in camera da letto, scelse degli abiti puliti nell’armadio e iniziò a far scorrere l’acqua della doccia, mentre osservava incuriosita delle foto in cornice, cercando di riconoscervi l’anziana donna  che aveva seguito per una settimana intera. Ne scrutava gli occhi, le pose ed ogni singola ruga arrivando quasi a sentirla familiare, a provare affetto verso di lei.

Si sentiva finalmente nuova, pulita. Splendida seppure vestita d’abiti altrui. Ripulì tutto la piccola Lucia, meglio di come aveva trovato. Ma non le bastò. Lei non era una ladra. Non era colpa sua se nessuno era disposto a darle un lavoro. Non era certo lei che doveva soccombere sotto il carico di una situazione sociale penosa: disoccupazione dilagante, precariato imperante, borghesi rincitrulliti abbagliati da fraudolenti impuniti e arroganti faccendieri. Tutti pietosamente rassegnati di fronte a scambi di favori, insabbiamenti, tempi morti e leggi ad personam. Tutti si omologavano oramai a criteri quali arrivismo ed opportunismo: ogni situazione o persona andava sfruttata per la sopravvivenza. Si andava avanti in una specie di cortocircuito dei sensi dove le persone normali, oneste, che lei avrebbe voluto emulare, erano diventate dei “noncontiuncazzo” rispetto a categorie protette che vivevano all’insegna dell’ostentazione di se. Come avrebbe potuto decidere da che parte stare? Chi essere?

Si era inventata lei, Lucia. Sbaragliando qualunque criterio imposto. Lo aveva inventato lei il suo lavoro, plasmandolo a seconda delle esigenze del momento. Si guardò intorno, con minuzia osservò ogni angolo della casa e decise di intervenire ove fosse necessario; ed ecco che le tendine dei bagni furono perfettamente rifinite, piante annaffiate, argenteria lucidata: il tutto con una rapidità calcolata al  millesimo.

Terminato il suo lavoro si richiuse la porta alle spalle, soddisfatta, e corse via più in fretta che potè, tirando un sospiro di sollievo. Rinnovata e rinvigorita, aspettava seduta il suo treno con i raggi puliti di un sole settembrino che le accendevano il viso. Si addormentò suonando le corde della sua chitarra immaginaria, cullandosi in quella musica fatta di avventure da percorrere in lungo e in largo, mentre tutto intorno vibrava di vita e di chiacchiericci interiori. Svaniva sornione nel tramonto, oscurando la patina grigia del giorno che fu, quel sole autunnale. La sera scese puntuale su Roma, cancellando ogni traccia residua di colore e di sogno. Era buio oramai. Il brulichio di una stazione affollata, moriva in un cimitero di silenzi sinistri e stanche presenze. I romani si apprestavano alle loro cene e ai loro caldi letti, ipnotizzati davanti al televisore. Ognuno pronto a spegnere il proprio cervello con un clic, catapultandosi nell’effimero tra gente che sguazza tra rettili e si getta tra le fiamme, fingendo un’umanità che altro non è che assenza di ardore emotivo e vuoto dell’anima.

La signora Lucia sedeva al solito posto, con le spalle rivolte alla sua città, mentre la freccia di ferro nell’oscurità rotolava sui binari. Non si nascondeva più. Non ne poteva più di trascinare i suoi passi stanchi. Il vagone era deserto come il suo sguardo spento che tentava inutilmente di decifrare il paesaggio scuro che sfrecciava vertiginosamente al di là del finestrino. Cercava di ancorare le immagini, di attutire la velocità. Avrebbe voluto riposare per sempre. Per  sempre. Aveva provato a ripeterlo più volte davanti ad un uomo, per sempre: ora sapeva quanto fosse ridicolo. Ora sapeva quanto amaro lasciassero i sogni e quanta solitudine scaturisse impietosa dalle sue scelte.

Finse di dormire, quando il suo vagone abbandonato si svolse davanti ai logori occhi insieme agli altri fotogrammi e ingannò le gambe ancorandole al sedile. Stavolta il viaggio doveva continuare, a differenza di tutte le altre volte, portarla  alle sue montagne. Sentì che doveva tornare alle origini, ai suoi odori, alla verde pace che l’aveva accolta alla nascita e ripudiata poi. La sua vita ora, le scorreva innanzi come tutte quelle vite nelle quali era entrata di prepotenza. Ora era semplicemente una di loro. I volti di quelle persone le roteavano intorno, danzando nel suo delirio, sorridendole. Ora loro erano la sua unica famiglia. L’unica che sapeva riconoscere. Cullata da questi pensieri,, chiuse le palpebre  al giorno che fu e continuò a viaggiare verso l’oblio.
 
Giusy Morrone

2 commenti:

  1. Mamma mia che meraviglia.. Giusy sei incredibile..Complimentissimi. Breve ma intenso..

    RispondiElimina
  2. Brava Giusy! una poetica ma lucida e tagliente denuncia sociale.

    RispondiElimina