TRAIETTORIE
RICORRENTI
La piccola Lucia
alzò svogliatamente il capo destandosi dal suo torpore abituale. Aveva
consumato le sue ultime ore di solitudine appoggiata al paesaggio piovoso. Alzò
il sipario su qualcosa che oramai le era drammaticamente familiare e dai vetri
ingrassati da chissà quanti anni di teste sonnolenti, scorse la stessa natura
di sempre avvolta dalla bruma mattutina.
Pensò che non
avrebbe voluto fermare i suoi sogni e vederli morti in un binario cieco, come
quel vagone abbandonato. Le somigliava quel riparo maleodorante. Dimenticato.
Morto. Vivo solo per lei che lo rendeva tale. Lei ne aveva bisogno. Ma chi
aveva bisogno di lei?
L’aria era
frizzante, credette di scrollarsi di dosso quell’olezzo di pelle ammuffita
correndo tra sterpaglie fangose e pezzi di ferro arrugginito mentre la pioggia
indifferente le lambiva il viso. Ma quell’odore oramai faceva parte di lei,
della sua giovane pelle. Si abbassò sulle rotaie che di li a poco iniziarono a
sibilare e come era solita fare seguendo traiettorie note, si nascose dietro
l’angolo più remoto della vecchia stazione in attesa del grande balzo fulmineo
che l’avrebbe condotta direttamente nel gabinetto di un treno qualunque di
passaggio.
Salì e se ne
restò così, in penombra, in quello spazio angusto, finchè non sentì le rotaie
fischiare, il treno rallentare la sua corsa e i soliti interminabili minuti di
silenzio che duravano sempre un po’ più di tutti gli altri. Aspettò ancora.
Quando il silenzio le fu vicino tanto da poter distinguere soltanto le voci in
lontananza, aprì lo sportello e sgattaiolò giù.
Attraversò
frettolosamente il caos della stazione centrale, lasciando cadere di quando in
quando i suoi pensieri ora su una vetrina, ora sui milioni di libri
ordinatamente disposti nelle librerie. Ora i suoi occhi carichi di vita
vagavano tra gli odori di pizzerie, take away cinesi e centri benessere.
Quell’euforia propria della giovinezza le imponeva di sentirsi immortale,
invincibile, nonostante la sua condizione: la sua vita varrà dieci, cento, mille
vite. La slot machine avrà infinite combinazioni vincenti e lei trionferà acclamata rotolandosi nella saporita
soddisfazione del successo.
La solita
traiettoria di quella settimana si svolse portandola in orario sugli scalini
della basilica. Entrò, impiegò qualche istante ad abituare gli occhi al
chiaroscuro sacro e non appena inquadrò l’anziana donna, intenta a sedersi ad
uno dei primi banchi, un po’ come il mirino di un cecchino quando inquadra il
bersaglio, si precipitò di nuovo in strada.
Pensò che aveva
a disposizione più o meno due ore,
iniziò a correre urtando ora un turista, ora un bambino, ora due amiche
intente a fare shopping, come una
molecola impazzita che più prende velocità più aumenta la sua potenza. Aveva fatto bene a sceglierla anziana, era
stanca di scatolette, cibo pre-cotto e surgelati: nessuno sapeva più cucinare! L’uragano
Lucy si spinse ingrandendosi, fino ad esplodere esausto nell’oscurità di quel
portone.
Soltanto il suo
cuore agitava il silenzio, sconvolto oramai dall’ennesimo nuovo timore: solo
quindici giorni prima aveva letto sulla
pagina malconcia di un quotidiano, di un quartiere di Tokyo abitato dai
cosiddetti Otaku, individui rifugiati in una realtà parallela, che trascorrono giorno e notte davanti a
computer, tv o fumetti manga, senza mai
uscire di casa e facendo a meno di qualsiasi tipo di rapporto sociale con
l’esterno. Temeva di essere sorpresa da uno di loro in versione occidentale
rintanato in casa davanti ad un monitor.
Divorò gradini
sotto ai piedi così come la fame le stava divorando lo stomaco e giunta davanti
alla porta chiusa, che avrebbe potuto rappresentare la sua salvezza o la sua
condanna, estrasse dal giacchetto le chiavi sottratte abilmente in portineria,
e scivolò dentro.
La piccola Lucia
ispezionò nervosamente l’appartamento. Ad ogni passo la sua ansia si diradava
fino a scomparire definitivamente nell’ultima stanza: la cucina. Aprì il frigo
ed iniziò a trangugiare qualunque cosa fosse commestibile, poi si portò in
camera da letto, scelse degli abiti puliti nell’armadio e iniziò a far scorrere
l’acqua della doccia, mentre osservava incuriosita delle foto in cornice,
cercando di riconoscervi l’anziana donna
che aveva seguito per una settimana intera. Ne scrutava gli occhi, le
pose ed ogni singola ruga arrivando quasi a sentirla familiare, a provare
affetto verso di lei.
Si sentiva
finalmente nuova, pulita. Splendida seppure vestita d’abiti altrui. Ripulì
tutto la piccola Lucia, meglio di come aveva trovato. Ma non le bastò. Lei non
era una ladra. Non era colpa sua se nessuno era disposto a darle un lavoro. Non
era certo lei che doveva soccombere sotto il carico di una situazione sociale
penosa: disoccupazione dilagante, precariato imperante, borghesi rincitrulliti
abbagliati da fraudolenti impuniti e arroganti faccendieri. Tutti pietosamente
rassegnati di fronte a scambi di favori, insabbiamenti, tempi morti e leggi ad
personam. Tutti si omologavano oramai a criteri quali arrivismo ed
opportunismo: ogni situazione o persona andava sfruttata per la sopravvivenza.
Si andava avanti in una specie di cortocircuito dei sensi dove le persone
normali, oneste, che lei avrebbe voluto emulare, erano diventate dei “noncontiuncazzo”
rispetto a categorie protette che vivevano all’insegna dell’ostentazione di se.
Come avrebbe potuto decidere da che parte stare? Chi essere?
Si era inventata
lei, Lucia. Sbaragliando qualunque criterio imposto. Lo aveva inventato lei il
suo lavoro, plasmandolo a seconda delle esigenze del momento. Si guardò
intorno, con minuzia osservò ogni angolo della casa e decise di intervenire ove
fosse necessario; ed ecco che le tendine dei bagni furono perfettamente
rifinite, piante annaffiate, argenteria lucidata: il tutto con una rapidità
calcolata al millesimo.
Terminato il suo
lavoro si richiuse la porta alle spalle, soddisfatta, e corse via più in fretta
che potè, tirando un sospiro di sollievo. Rinnovata e rinvigorita, aspettava
seduta il suo treno con i raggi puliti di un sole settembrino che le
accendevano il viso. Si addormentò suonando le corde della sua chitarra
immaginaria, cullandosi in quella musica fatta di avventure da percorrere in
lungo e in largo, mentre tutto intorno vibrava di vita e di chiacchiericci
interiori. Svaniva sornione nel tramonto, oscurando la patina grigia del giorno
che fu, quel sole autunnale. La sera scese puntuale su Roma, cancellando ogni
traccia residua di colore e di sogno. Era buio oramai. Il brulichio di una
stazione affollata, moriva in un cimitero di silenzi sinistri e stanche
presenze. I romani si apprestavano alle loro cene e ai loro caldi letti,
ipnotizzati davanti al televisore. Ognuno pronto a spegnere il proprio cervello
con un clic, catapultandosi nell’effimero tra gente che sguazza tra rettili e
si getta tra le fiamme, fingendo un’umanità che altro non è che assenza di
ardore emotivo e vuoto dell’anima.
La signora Lucia
sedeva al solito posto, con le spalle rivolte alla sua città, mentre la freccia
di ferro nell’oscurità rotolava sui binari. Non si nascondeva più. Non ne
poteva più di trascinare i suoi passi stanchi. Il vagone era deserto come il
suo sguardo spento che tentava inutilmente di decifrare il paesaggio scuro che
sfrecciava vertiginosamente al di là del finestrino. Cercava di ancorare le
immagini, di attutire la velocità. Avrebbe voluto riposare per sempre. Per sempre. Aveva provato a ripeterlo più volte
davanti ad un uomo, per sempre: ora sapeva quanto fosse ridicolo. Ora sapeva quanto
amaro lasciassero i sogni e quanta solitudine scaturisse impietosa dalle sue
scelte.
Finse di
dormire, quando il suo vagone abbandonato si svolse davanti ai logori occhi
insieme agli altri fotogrammi e ingannò le gambe ancorandole al sedile.
Stavolta il viaggio doveva continuare, a differenza di tutte le altre volte,
portarla alle sue montagne. Sentì che doveva
tornare alle origini, ai suoi odori, alla verde pace che l’aveva accolta alla
nascita e ripudiata poi. La sua vita ora, le scorreva innanzi come tutte quelle
vite nelle quali era entrata di prepotenza. Ora era semplicemente una di loro.
I volti di quelle persone le roteavano intorno, danzando nel suo delirio,
sorridendole. Ora loro erano la sua unica famiglia. L’unica che sapeva
riconoscere. Cullata da questi pensieri,, chiuse le palpebre al giorno che fu e continuò a viaggiare verso
l’oblio.
Giusy Morrone
Mamma mia che meraviglia.. Giusy sei incredibile..Complimentissimi. Breve ma intenso..
RispondiEliminaBrava Giusy! una poetica ma lucida e tagliente denuncia sociale.
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