di sarah panatta
Tra Incerti e Amelio. Storie immote e
corpi-scene. La favola personificata e il simbolismo dei reietti per
raccontarci. Uomini o tipi? Uomini-topi, nuova (unica) avanguardia strisciante
del cinema (che vorrebbe farsi) denuncia.
Se al cinema italiano mancano oggi
strutturalmente, regie intransigenti, solidamente indipendenti, non pretestuose,
tralasciando esempi eclatanti sino al parossismo (da Sorrentino a Delbono). Se le
sceneggiature, spiaggiate nello smascherato labirinto del grottesco, non
sopravvivono al dialogo con la realtà, o non lo tentano, né lo sentono. Restano
i corpi attoriali. Che lavorano con il mento e con le mani. Che increspano pieghe
inusitate del collo. Che tendono anarchici e solidali le fibre di muscoli in
allerta costante. Uomini. Che in una bolla di respiro denso e dubbioso misurano
la sconfitta di una società turpe, resistente, intrinsecamente feudale.

Antonio Pane/Antonio Albanese (nell’irrisolto
stage fotografico dell’ultimo film di Gianni Amelio, L’intrepido) è. È centinaia di impieghi, di incontri, di sostituzioni.
È ma non esiste. Se non per debole, ottimistica scommessa con una dimensione
urbana e familiare che non lo percepisce. Se non come paravento, appiglio
trasversale, conforto estraneo a tempo determinato. Antonio Pane divora se
stesso donando sorrisi e massime stantie perché storicamente e individualmente
incamerate. Antonio è un “rimpiazzo”, un’identità in contumacia. Albanese si
annienta progressivamente nelle membra mimetiche dell’altro “suo” Antonio. Si immerge,
palombaro del lavoro (in) nero, nel disarmo delle industrie, dei cantieri, dei
contratti, delle relazioni (mai) reciproche. Albanese mimo italico per
eccellenza, sconta la cancrena egoistica dei suoi simili-superiori, vassallo di
un Potere aleatorio e incombente, riflesso nel cielo torbido e ferroso di
Miliano, nelle vetrine di negozi-copertura, sui muri di una palestra-casino.
Albanese esplode e svanisce, sottraendosi, alle/nelle poche battute di un
protagonista mancato/mancante e quasi sublime.
Mentre Toni occupa, delimita e
domina. Il Servillo nazionale, salv-agente di decine di film, feticcio mai
corroso di fortunati enfant prodige.
Servillo atterra, invade, seduce, intrappola, trasporta. Sulle spalle larghe, leggermente
inclinate, arieti che sfondano l’aria incatramata dell’umanità in catene, tutto
il peso di ciascun microcosmo studiato e impersonato. Servillo non è, esiste. Conquista
lo spazio scenico, trasformando il film in una quinta praticabile, esile
prospettiva, iper-mondo tutto da esplorare. Tanto più gigantesco e terrificante
quanto più rincagnato, insudiciato, logorato, stropicciato in omuncoli dalla
volontà appena percettibile, sebbene furiosa. Un topo che sa dove tintanarsi e
come depredare la società diseguale. Il suo Gorbaciof (nel film omonimo dell’ermetico
nostalgico Incerti), dipendente carcerario, che ruba alle casse pubblica per
giocare d’azzardo, ha un’unica missione. Fuggire quotidianamente dalla
città-cella, da una Napoli internazionale beffarda e incomunicabile. E irridere
i ricchi idioti di turno al tavolo delle carte. Ucciso dallo stesso meccanismo
che cerca di disinnescare, in un angolo, solo.
Corpi di esclusione e di riscatto
impossibile. Caratteri che non si lasciano afferrare dalle maglie della
fiction. Che vivono e animano la nostra casa dei fantasmi reale.
Nessun commento:
Posta un commento