domenica 1 settembre 2013
(esca)Video- Iolanda La Carrubba "la metro de Paris"
Regia: Iolanda La Carrubba
Anno di produzione: 2012
Durata: 9' 55''
Tipologia: documentario
Genere: arte/sociale/storico
Paese: Italia
Distributore: n.d.
Data di uscita:
Formato di ripresa: HDV
Formato di proiezione: DV, colore e bianco/nero
Titolo originale: La Metro de Paris
Sinossi: Parigi capitale della Francia, Città di fascino storico di amori ed arte, capitale della joie de vivre.
Nel 1900 durante l’esposizione universale il 19 Luglio senza nessun festeggiamento, aprì la sua prima linea della metropolitana inizialmente chiamata chemin de fer métropolitain – poi semplificata in métropolitain, ed infine appellata con il vezzeggiativo di Metrò ancora oggi in uso.
La rete della metropolitana si estese rapidamente fino agli inizi della guerra mondiale del ’15-’18 e nel 1920, con tenacia e soprattutto per il bene dello sviluppo topografico sotterraneo della città, il primo gruppo delle stazioni della metrò venne completato, consentendo così ai cittadini di usufruire dell’innovativo mezzo di trasporto giornaliero che mai aveva avuto precedenti.
L’unico esemplare della prima generazione di stazioni ferroviarie mai costruite, appartiene proprio all’immensa ragnatela del Metrò de Paris: la “Gare de l’est”. Il fascino di questa particolare stazione, si genera grazie al connubio architettonico ed artistico, infatti qui vi è rappresentata la partenza dei soldati al fronte nell’agosto del 1914, in un’opera pittorica di 60 metri quadri realizzata dall’artista newyorkese Halbert Herter, il dipinto poi venne esposto nel 1926 in memoria del figlio caduto in guerra.
Per svariate ragioni alcune delle fermate non vennero terminate o non furono mai aperte al pubblico, acquisendo così il curioso nomignolo di “stazioni fantasma”. Porte de Lilias de cinema è una delle più celebri essendo ormai utilizzata esclusivamente per delle location cinematografiche, infatti alcune delle pellicole più note hanno avuto i natali proprio in questa stazione... ma il vero protagonista del viaggio nei vagoni metropolitani, i quali hanno trasformato radicalmente il loro design nel trascorrere del tempo, è quel pezzetto di carta che per lo più dopo essere stato utilizzato finisce per essere calpestato dall’inarrestabile corsa dei parigini.
Il biglietto “Billet o Tiquette” era suddiviso in tre categorie: I classe 25 centesimi di franco, II classe 15 centesimi di franco, andata e ritorno 20 centesimi di franco; ad oggi molte sono le tariffe del biglietto per usufruire di questo capolavoro dell’ingegneria dei trasporti pubblici, infatti anche la neotecnologia giunge fino a fondersi nella carta del Tiquette sostituendo la barra magnetica con un microchip (con tutti i pro o i contro che questo comporta).
La particolarità della metropolitana di Parigi oltre alle 300 stazioni circa, è il rapido servizio che offre grazie alla sua vicinanza di una fermata all’altra. In questo mondo sotterraneo si gode di un efficiente mezzo di trasporto che garantisce oltre ad un impeccabile puntualità, tra l’arrivo e la partenza, anche un impensabile ordine del ‘piccolo buon viaggio’ per così definire l’odierno andirivieni del tran-tran quotidiano.
In questo impensabile, straordinario luogo di incontro, si percepisce la plausibile novità dell’evoluzione umana, interscambi culturali di multi-etnie che con i loro gesti d’abitudine rituale incuriosiscono lo sguardo dell’estraneo instaurando, istantaneamente, un contatto subconscio che genera così un richiamo ancestrale o addirittura iperspirituale tra le differenze tradizionali degli stili di vita come se fosse il richiamo scaturito dal tam-tam tribale.
Sorrisi, pianti, bambini e caramelle, qui si esiste senza aver necessità di spiegazione, senza nessun tipo di incertezza, qui si esiste e si esiste per come si è e c’è chi mangia un’insalata fredda di pasta, molti leggono giornali, riviste, libri dalle copertine variopinte, alcuni addirittura ballano, altri navigano in internet con i cellulari che sembrano essere stati trafugati dal set di un film fantascientifico di Spielberg. Proprio qui in questo poliedrico centro della civiltà, ogni esistenza dal fotone che attraversa i lunghi corridoi, al venditore abusivo di di biglietti, si fonde in un perfetto equilibrio cromatico come potrebbe avvenire all’interno di una delle arterie principali del corpo umano.
La metro (sarebbe meglio francesizzare il termine), Le Metrò, in funzione tutti i giorni dalle sei del mattino a l’una di notte circa, custodisce la storia della Francia; molte sono le fermate che portano il nome di: battaglie vittoriose “Solferino”, monumenti “Palace Royal museè du Louvre”, personaggi storici “Gambetta”, scrittori “Alexandre Dumas”, scultori “Pigalle”, scienziati “Pasteur”, ovviamente senza dimenticare l’ingegnere “Fulgence Bienvenue” il padre, per così dire, della metropolitana di Parigi.
Altre stazioni, invece, ammaliano i loro visitatori per la caratteristica di presentarsi come: una piccola frazione del museo del Louvre “Louvre Rivoli”, una pagina di un pregiato libro colmo degli autografi delle celebrità del quartiere latino “Cluny-La Sorbonne” e chi invece si contraddistingue per le pareti dove viene presentato il testo della dichiarazione dei diritti “Concorde”.
Nel vasto labirinto concentrato nel sottosuolo di Parigi, è possibile perfino trascorrere interi decenni nella scoperta di nuovi preziosi dettagli, nuove storie, nuove strade che conducono verso una città senza fine.
Uscendo da questo dedalico percorso, si viene colti dall’irruente temperamento della città, il vento che si incanala nei passaggi scivolando sui pochi grandini che riconducono verso i tetti di Parigi, invita ad una festa interminabile, alla ricerca del bel vivere, dell’inebriante fragranza di una città inarrestabile e la sua metropolitana, il cordone ombelicale, appare in scena patrocinata da un’immensa M rossa, ed il fascino della madre dello spostamento, si dichiara grazie agli ingressi Art-Nouveau fatti di ferro danzante che assume la forma di tulipani e libellule e queste fiabesche forme arrecano ai sensi l’indescrivibile emozione del perpetuo déjà-vu che solo Parigi riesce a spiegare.
Anno di produzione: 2012
Durata: 9' 55''
Tipologia: documentario
Genere: arte/sociale/storico
Paese: Italia
Distributore: n.d.
Data di uscita:
Formato di ripresa: HDV
Formato di proiezione: DV, colore e bianco/nero
Titolo originale: La Metro de Paris
Sinossi: Parigi capitale della Francia, Città di fascino storico di amori ed arte, capitale della joie de vivre.
Nel 1900 durante l’esposizione universale il 19 Luglio senza nessun festeggiamento, aprì la sua prima linea della metropolitana inizialmente chiamata chemin de fer métropolitain – poi semplificata in métropolitain, ed infine appellata con il vezzeggiativo di Metrò ancora oggi in uso.
La rete della metropolitana si estese rapidamente fino agli inizi della guerra mondiale del ’15-’18 e nel 1920, con tenacia e soprattutto per il bene dello sviluppo topografico sotterraneo della città, il primo gruppo delle stazioni della metrò venne completato, consentendo così ai cittadini di usufruire dell’innovativo mezzo di trasporto giornaliero che mai aveva avuto precedenti.
L’unico esemplare della prima generazione di stazioni ferroviarie mai costruite, appartiene proprio all’immensa ragnatela del Metrò de Paris: la “Gare de l’est”. Il fascino di questa particolare stazione, si genera grazie al connubio architettonico ed artistico, infatti qui vi è rappresentata la partenza dei soldati al fronte nell’agosto del 1914, in un’opera pittorica di 60 metri quadri realizzata dall’artista newyorkese Halbert Herter, il dipinto poi venne esposto nel 1926 in memoria del figlio caduto in guerra.
Per svariate ragioni alcune delle fermate non vennero terminate o non furono mai aperte al pubblico, acquisendo così il curioso nomignolo di “stazioni fantasma”. Porte de Lilias de cinema è una delle più celebri essendo ormai utilizzata esclusivamente per delle location cinematografiche, infatti alcune delle pellicole più note hanno avuto i natali proprio in questa stazione... ma il vero protagonista del viaggio nei vagoni metropolitani, i quali hanno trasformato radicalmente il loro design nel trascorrere del tempo, è quel pezzetto di carta che per lo più dopo essere stato utilizzato finisce per essere calpestato dall’inarrestabile corsa dei parigini.
Il biglietto “Billet o Tiquette” era suddiviso in tre categorie: I classe 25 centesimi di franco, II classe 15 centesimi di franco, andata e ritorno 20 centesimi di franco; ad oggi molte sono le tariffe del biglietto per usufruire di questo capolavoro dell’ingegneria dei trasporti pubblici, infatti anche la neotecnologia giunge fino a fondersi nella carta del Tiquette sostituendo la barra magnetica con un microchip (con tutti i pro o i contro che questo comporta).
La particolarità della metropolitana di Parigi oltre alle 300 stazioni circa, è il rapido servizio che offre grazie alla sua vicinanza di una fermata all’altra. In questo mondo sotterraneo si gode di un efficiente mezzo di trasporto che garantisce oltre ad un impeccabile puntualità, tra l’arrivo e la partenza, anche un impensabile ordine del ‘piccolo buon viaggio’ per così definire l’odierno andirivieni del tran-tran quotidiano.
In questo impensabile, straordinario luogo di incontro, si percepisce la plausibile novità dell’evoluzione umana, interscambi culturali di multi-etnie che con i loro gesti d’abitudine rituale incuriosiscono lo sguardo dell’estraneo instaurando, istantaneamente, un contatto subconscio che genera così un richiamo ancestrale o addirittura iperspirituale tra le differenze tradizionali degli stili di vita come se fosse il richiamo scaturito dal tam-tam tribale.
Sorrisi, pianti, bambini e caramelle, qui si esiste senza aver necessità di spiegazione, senza nessun tipo di incertezza, qui si esiste e si esiste per come si è e c’è chi mangia un’insalata fredda di pasta, molti leggono giornali, riviste, libri dalle copertine variopinte, alcuni addirittura ballano, altri navigano in internet con i cellulari che sembrano essere stati trafugati dal set di un film fantascientifico di Spielberg. Proprio qui in questo poliedrico centro della civiltà, ogni esistenza dal fotone che attraversa i lunghi corridoi, al venditore abusivo di di biglietti, si fonde in un perfetto equilibrio cromatico come potrebbe avvenire all’interno di una delle arterie principali del corpo umano.
La metro (sarebbe meglio francesizzare il termine), Le Metrò, in funzione tutti i giorni dalle sei del mattino a l’una di notte circa, custodisce la storia della Francia; molte sono le fermate che portano il nome di: battaglie vittoriose “Solferino”, monumenti “Palace Royal museè du Louvre”, personaggi storici “Gambetta”, scrittori “Alexandre Dumas”, scultori “Pigalle”, scienziati “Pasteur”, ovviamente senza dimenticare l’ingegnere “Fulgence Bienvenue” il padre, per così dire, della metropolitana di Parigi.
Altre stazioni, invece, ammaliano i loro visitatori per la caratteristica di presentarsi come: una piccola frazione del museo del Louvre “Louvre Rivoli”, una pagina di un pregiato libro colmo degli autografi delle celebrità del quartiere latino “Cluny-La Sorbonne” e chi invece si contraddistingue per le pareti dove viene presentato il testo della dichiarazione dei diritti “Concorde”.
Nel vasto labirinto concentrato nel sottosuolo di Parigi, è possibile perfino trascorrere interi decenni nella scoperta di nuovi preziosi dettagli, nuove storie, nuove strade che conducono verso una città senza fine.
Uscendo da questo dedalico percorso, si viene colti dall’irruente temperamento della città, il vento che si incanala nei passaggi scivolando sui pochi grandini che riconducono verso i tetti di Parigi, invita ad una festa interminabile, alla ricerca del bel vivere, dell’inebriante fragranza di una città inarrestabile e la sua metropolitana, il cordone ombelicale, appare in scena patrocinata da un’immensa M rossa, ed il fascino della madre dello spostamento, si dichiara grazie agli ingressi Art-Nouveau fatti di ferro danzante che assume la forma di tulipani e libellule e queste fiabesche forme arrecano ai sensi l’indescrivibile emozione del perpetuo déjà-vu che solo Parigi riesce a spiegare.
(esca)Video: book trailer Massimo Pacetti
Booktrailer con Massimo Pacetti
ideato e realizzato da Iolanda La Carrubba
(esca)Musica- Poesi-canzone PIAZZE
Poesia di Giovanni Minio
musica ed interpretazione Amedeo Morrone
(esca)Recensione- Fernando Della Posta
Viaggio fotografico di Fernando Della Posta
di Iolanda La Carrubba
L’interpretazione del dato oggettivo nei lavori fotografici di Fernando Della Posta, valica gli ostacoli del banale per approdare nella sincerità dello scatto. Si avverte una profonda interrogazione tra il punto focale e il moto impresso sulla pellicola, strettamente legato alla complessa struttura dell’angolo di campo.
Questi “frame” posseggono una forza cinematografica che ripercorre con istintiva intelligenza, la visione registica hitchcockiana, con momenti che culminano nell’oniricità felliniana. La forza cinetica di queste immagini, sprigiona pura energia nel contesto visivo, i palazzi non sono solo architetture contenenti vite, ma vite stesse che si stagliano (in)contro cieli terzi, le persone abitano le prospettive, senza necessità di mettersi in posa per lo scatto, ma lo vivono danzandoci.
Fernando Della Posta descrive e interpreta il mondo attraverso l’obiettivo, come se lo stesse attraversando in treno, lo riconoscesse superando la velocità vorace di quelle sequenze in viaggio, che scorrono liete dietro il finestrino e lui possedesse la capacità di fermare quel frammetto di vita, come se fosse il ricordo di un sogno, un sogno felice fatto in treno.
Qui il movimento si fa vero protagonista, mantenendo la costanza dello sguardo anche là dove il life-stile prende il sopravvento sulla razionalità della stasi, infatti dove c’è stasi, c’è concentr-Azione che riesce a catturare la libertà caratterizzata dalle situazioni. Penso alle manifestazioni in piazza, a mezzi di locomozione che trascinano fasci di colore, fin quando d’improvviso cala il silenzio, come fosse l’apparente calma della sera. Il colore è presente anche dove vive quieto nel bianco e nero diretto con acume, questa è una fotografia in grado di custodire esperienze, forme e stili provenienti anche dalla beat generation.
Anche se spontanea la visione in questo “oggi” fotografato da Della Posta, l’insieme è la vera chiave di lettura, l’intraprendenza del fotografo sta proprio nella continua esplorazione dei sensi, delle emozioni, qui infatti vige la necessità di appartenere ai fatti riuscendo tuttavia ad estraniarsi, dando così la percezione emotiva del surrealismo.
(esca)Recensione: Enzo Minarelli-POETRY-MUSIC-MACHINE
di Enzo Minarelli
Ascoltando in queste giornate
agostane invero un po’ troppo roventi, [da sempre il periodo che io dedico
all’ascolto di opere accumulate nei mesi precedenti], il lavoro di Marco
Palladini, pensavo che fin dal titolo, l’autore mette le carte in tavole, gioca
a carte scoperte, mette insomma le cose in chiaro: c’è Lei, la Poesia qui definita in
anglosassone Poetry [poteva restare l’italico vocabolo, non cambiava nulla],
poi viene Music e infine buon ultimo, Machine.
L’ordine mi pare quello giusto, prima
viene Lei, il nostro autore ha, come si suol dire, il cuore gonfio, deve
togliersi parecchi sassolini dalle scarpe, e li snocciola con una insolita
rabbia fino in fondo, correndo tutti i rischi del caso. La Poesia viene prima, però lo
stile scelto per allentare la sua tensione esistenziale, è asciutto, pochi
fronzoli, poche concessioni al superfluo, mira dritto a quello che deve dire e
lo dice in fretta, quasi di corsa.
Poi la Musica , un gradino più sotto,
correttamente ricopre come io amo dire [senza voler riprendere un noto punto
del mio Manifesto della Polipoesia
1987, Valencia], un ruolo deuteragonista, mai invadente, ritmica al punto
giusto, quasi un fruscio di sottofondo, una easy-music,
se mi si passa il termine, che, a ragione, lascia libero spazio al protagonismo
della voce, alla oralità palladiniana.
Non a caso ho impiegato
l’aggettivazione palladiniana, perché
se ha un merito la sua voce, è proprio quello di non irrigidirsi su una
monotona tonalità, come invece purtroppo succede in molti casi quando spunta la
musica a supporto del testo letto, infatti, le sue non sono letture nel senso
classico, ma vere performance dove, come direbbe il caro e compianto Edoardo
Sanguineti, la poesia è sempre la soluzione ad un problema, e il Nostro si pone
di volta in volta il problema del come formulare il testo, operando variazioni
sia timbriche che tonali, in questo aiutato alla perfezione dal terzo elemento la Machine , ovvero
l’hardware, il computer, la dotazione informatica; sapientemente li sfrutta
attraverso shape predisposti, anche
ricorrendo a filtri modulari che per forza galvanizzano la sua voce, la
impregnano di quella vis elettronica che discendeva una volta dal sistema
analogico ed ora da quello digitale.
Se a qualcuno di voi capita di avere
tra le mani questo libretto con CD accluso, consiglierei di ascoltare subito la
performance orale, senza leggere il testo che ridurrebbe di molto
l’effetto-sorpresa, naturalmente guai a chi usa la scrittura poetica come fosse
un libretto per l’opera. Non solo, seguite il mio consiglio, non iniziate la
sessione di ascolto dalla n. 1, un po’ come per il grande poema di Edgar Allan
Poe [Il Corvo], si inizia dalla
quartultima stanza che è quella che il poeta di Richmond ha scritto per prima,
oppure come per quell’immenso ed insuperato capolavoro Rayuela, Julio Cortázar indicava una precisa sequenza di lettura
che non corrispondeva al solito schema progressivo, qui capita la stessa cosa:
io suggerisco di iniziare dalla numero 8 perché qui sentite subito il
corpo-voce [se preferite la voce-corpo] del poeta, sentite palpabile l’anima
orale, lo stridore nitido della performance senza interferenza alcuna, come
guardare le stelle cadenti nella notte di San Lorenzo {il mio compleanno!}
stesi lungo un campo o su un colle, lontano dalla artificiosità delle luci
urbane. Poi andrei alla numero 6 perché
rende bene il solco che tutto il CD seguirà, appare la musica come detto, ed è
ovvio l’omaggio alla Beat Generation,
proprio Kerouac ha utilizzato il jazz come accompagnamento, lo stesso Ginsberg
durante quegli iperaffollati reading
al Cellar di San Francisco nei
primissimi anni Cinquanta. Va da sé ammettere che anche il Nostro si inserisce
con piglio autorevole in questa tradizione che già annovera, in suolo italico,
illustri precedenti vedi le coppie Balestrini-Cinque, Voce-Fresu, oppure, molto
più modestamente, da citare anche la collaborazione di chi scrive con Ares
Tavolazzi, il bassista degli Area. Poi proseguirei con la numero 4 che richiama
proprio Charlie Parker, il nume musicista dei Beats, poi la 3 e la 2 che hanno
un forte impatto comunicativo, la voce assume un’impennata autorale, quasi da
tribuno. Dopo l’ascolto della 2, potete procedere liberi, facendo però
attenzione a terminare assolutamente non con la 14 ma con la 10. Il pezzo Decollare…Decollarsi è una vera perla
nell’insieme del CD, sicuro risente della mano di Luca Salvadori che ha gestito
non la musica, ma la musicalità, in maniera intelligente facendo risaltare ancor
più la robusta oralità, questo pezzo è un breve inno a Sua Maestà la Ripetizione che come
direbbe un filosofo francese [Gilles Deleuze] è sempre “simbolica nella sua
essenza”, e qui occorre davvero, scollarsi, scrollarsi di dosso tutta la
zavorra asfissiante della mediocrazia (neologismo coniato da Dick Higgins), per
tornare ad auscultare la purezza dei suoni, delle parole e perché no anche dei
rumori [R. Murray Schafer docet!].
agosto 2013,
Pianura Padana
Vacancy-Domenico Donatone "mostra al castello di Otranto"
De Chirico e il Salento. Una mostra
al castello aragonese di Otranto.
di
Domenico Donatone
Tra
i luoghi d’Italia da visitare il Salento è sicuramente ai primi posti. Fatta
eccezione per le città d’arte che sono mete a se stenti, protagoniste assolute
della storia, come Roma, Milano, Venezia, Torino, Firenze, Napoli, Palermo, per
cui visitarle richiede un’attenzione maggiore rispetto alla stessa distensione
del viaggio, si può scegliere di visitare luoghi più adatti alla propria
indole. Per cui visti i gioielli, toccato con mano gli ori, ci si può dedicare
a un tipo di scoperta meno impegnativa e più distesa, meno vincolante a qualcosa
che in Italia funziona benissimo: la scoperta di luoghi che possiedono
un’entità plurima di bellezza, inversamente proporzionata a quella delle grandi
città d’arte che sono un unicum del
bello. Lontano dai centri urbani affollati e occupati da un turismo invadente,
una ragione in più per allontanarsi dal centro per andare in periferia è insita
nella scoperta di una condizione di integrità e d’incanto. La bellezza è
preservata da una controllata frequentazione, da una moderazione della stessa
scoperta. In questo modo molte località d’Italia sopravvivono e sono
accessibili grazie ai pochi che la vivono. Luoghi che si possono visitare anche
se non si dispone di molto denaro, grazie alla possibilità di diverse soluzioni
itineranti. Certo anche vedere le cose, conoscerle, ha un costo. Occorre per la
bellezza, così come per circondarsi del piacere di alcune belle donne, un
quantitativo specifico di danaro senza il quale non si può ottenere nulla, né
piacere e né scoperta, e chi non ha denaro non ha niente! È triste
testimoniarlo, ma sopperire alla mancanza di denaro è una delle cose più
drammatiche che possa accadere ad una persona. Accertato che conoscere Venezia
significa avere la possibilità economica di recarsi a Venezia, rimane la
possibilità di conoscere luoghi e paesi a torto ritenuti marginali, che hanno
il fascino di non essere esigenti con il visitatore. Il Salento è una terra che
mette chi la visita nella condizione di immergersi subito nella storia e nella
realtà che le sono proprie. A questo punto non dirò dei luoghi che ho visitato
come meraviglia di un’Italia che scompare anche sotto questo profilo ogni
giorno di più, ma dirò della necessità di trovare ovunque cultura, mostre,
libri, quadri, incontri e lezioni impreviste. Un filo conduttore del sapere che
ha bisogno di conferme. Il connubio meglio riuscito sotto questo profilo è
sicuramente la mostra allestita nelle stanze del castello aragonese della città
di Otranto, dal titolo De Chirico. Il
mistero e la poesia (dal 8 giugno al 29 settembre 2013). L’esposizione
monografica a cura di Franco Calarata illustra il percorso dell’opera di
Giorgio de Chirico all’insegna della Metafisica, intesa dal maestro come
caratteristica dei soggetti (teste anonime, manichini, statue greche, templi
classici, treni in lontananza, piazze deserte ed archi vuoti), che scorre lungo
le diverse fasi stilistiche del suo lavoro. Decisamente folgorante sul piano
della sintesi semantica è il tema Metafisica al sud, all’interno della rassegna
collaterale della mostra, dal titolo Enigma
di un pomeriggio d’estate. La rassegna degli eventi offre la possibilità di
compiere inconsuete esplorazioni nel territorio pugliese, attraverso la visione
pittorica dell’artista padre della metafisica. Il video, realizzato da Chiara
Idrusa Scimieri, Visioni mediterranee,
(produzione Orione s.r.l.), accresce di contenuti la mostra, in sostanza
accademica e formale, e alimenta una ricerca ulteriore del senso moderno della
metafisica con una sequenza ben ordinata di immagini della Puglia, delle sue città
e delle sue coste, che riflettono la filosofia del pittore Giorgio de Chirico.
Il docu-film della Scimieri ha il merito di aggiungere atmosfere oniriche e
misteriche al già rigoroso ordine semantico della metafisica. Atmosfere che
cavalcano in senso ludico e metamorfico quale può essere oggi il significato
della Magna Grecia. Se non solo il Sud, soprattutto il Sud, nell’intersezione
di riti e figurazioni artistico-religiose, rappresenta la metafisica come
ragione di un sentimento non solo esterno ma interno alla storia narrata in
senso storiografico e proporzionale all’antropologia culturale. Un pensiero
antico che gioca a pensarsi in avanguardia.
Se ardimentoso ed azzardato può
sembrare l’accostamento della pittura metafisica all’arte barocca e rococò di
molte chiese di Lecce e di Gallipoli, il punto di soluzione tra l’architettura
classica e la pittura metafisica di de Chirico si trova a Santa Maria di Leuca,
nel bellissimo piazzale antistante la cattedrale detta di Finibus terrae. Fine
della terra. Inizio del mare. Punta estrema della Puglia e parte terminale del
Salento. Lì, sotto gli archi moderatamente alti, non imponenti e quasi
familiari, a struttura geometrica rigida circostante la piazza del faro, si può
trovare quel connubio tra natura, arte e pittura proposto nella mostra di
Otranto. Una soluzione doppiamente efficace sia sul piano figurativo che
architettonico e degna del pensiero di de Chirico, secondo il quale «senza la
riscoperta del passato, non è possibile la scoperta del presente». Principio
che evidentemente è stato recepito e assimilato anche da artisti pugliesi
contemporanei, che sono Antonio Giannini, Beppe Labianca, Oronzo Liuzzi e
Vincenzo Mascoli, inseriti nella struttura filologica della mostra di Otranto
con il presupposto di ottenere una riflessione possibile sul tema della storia
e della memoria attuale. Tutto il presente ci appare attraverso la sua storia,
così come la bellezza ci appare nella forza, nell’enigma e nel mistero della
sua stessa rappresentazione. A Otranto come a Gallipoli, a Ostuni come a Santa
Maria di Leuca, la pittura di de Chirico unita al deserto delle strade e delle
piazze pugliesi incontra nel visitatore un inaspettato motivo di festa e di sorpresa.
(esca)FotoRacconto: Sarah Panatta
Piazza Vittorio: human backstage
Testi e
fotografie
di sarah
panatta
Questa accavallata strategia di con-cavità angolari. Uniforme ritorno di linee di fuga.
Se fosse diventata, o sempre stata, a tua insaputa, il perimetro sicuro del tuo immoto scontento?
Figlio eterno, che abiti oscenamente assente e statisticamente plurimo questo giardino di pietra.
Figlio che languisce ai banchi di una Storia di sbucciate
ecoplastiche, tumulata nel calore
asfissiato di spazzature oltre umane. Figlio del post che della postuma sua
consapevolezza si beffa. Figlio che matura e snatura nell’eterna promessa di un
bagliore troppo lontano. Figlio torna a te. Tu che vivi nella memoria dei tarli
paterni e noleggi paternità irresponsabili, quando hai smesso di chiedere perché?
Di desiderare come? Di guadare dove? Hai mai cominciato?
Non esci dal
cono d’ombra, spazio di immaginazione mancato. Preferisci il sentiero già
battuto, dove figli tuoi, tuoi fratelli, avanzano su infiniti binari, senza
sfiorare l’imperfezione della propria sintesi. La possibilità non
utilitaristica del contatto.
Contagio. Lo
spauracchio della civiltà dei confini. Le malattie, le armi chimiche, gli
sbarchi, i terrorismi nucleari, le mascherini, i gas, il fumo. Quanto fumo. È la
materia dei confini.
Li trasforma in cicatriziale sgomento, poi in indifferente
echeggiato lamento. Smettere di sentirlo e di sentirci è facile. Premere un tasto,
sfogliare una pagina, linkarsi ad altro paesaggio, altro confine, altra
cicatrice, altro. L’altro non è mai nostro. È il cittadino vicinissimo dell’altrove
sperduto e fracassato a pochi centimetri di distanza.

Figlio della
grande Migrazione. Hai deciso di esplorare oltre le colonne d’Ercole.
Eppure hai
lasciato marcire il seme di ogni terra nuova. Hai prediletto conquiste
proterve.
Negando il dialogo del tuo Credo hai tramandato spesso solo un monolite
unitario in terra straniera. Figlio della Migr-azione. Hai smesso di gattonare
per imparare il linguaggio di penetrazione che non puoi più rimandare?
(esca)Racconto - Chiara Mutti
L’Isola
E
volto pagina, l’ultima pagina, chiudo il libro. Eppure me ne resto appesa,
intrappolata ancora nella storia, come se un eco me ne continuasse a mormorare nell’orecchio una
canzone, una di quelle canzoni del passato che si fanno tristi nel ricordo. Le
storie che vivono nei libri sono incanti, possono aprirti nuovi mondi o
semplicemente schiudere un varco nel tuo muro, un muro fatto di omertà e silenzi.
I miei silenzi li ho lasciati nelle grandi stanze di un convento dal pavimento
rosso di mattoni, dove ogni suono si ripercuoteva nello spazio intorno, nei
volti cerei snaturati dal dolore, nelle ferite aperte e sangue delle croci,
negli occhi vitrei di madonne lacrimose dalle luci fioche. Passi nel vuoto del silenzio,
passi di mille passi.
Anche
quando ero libera di correre in giardino, unica amica di giochi di me stessa,
anche allora io percepivo quel senso di lontananza dalla vita, jolly
caduto via dal mazzo delle carte, rompeva l’illusione e mi fermava il cuore.
Fuggivo spaventata a ripararmi tra le
mura, come se al chiuso quella “cosa”
potesse smettere di scolorirmi il viso. Era la mia Isola da cui aspettavo navi
in rotta verso il molo, ma la sua nave non attraccava mai. Mai.
Dei
primi mesi di quegli anni ricordo solo qualche passo; scene, immagini così confuse
e indecise nel tempo da non sapere più bene a chi appartengano: un grande
chiostro, l’orto dei frati francescani, la grande sala, il fuoco nel camino. Mio
fratello ed io: piccole ombre danzanti sul muro, sguardi persi oltre il muro. Il
fuoco! Capace di dare la vita e di distruggere, distruggere, distruggere
velocemente ogni cosa nella sua corsa guizzante e impazzita assorbendo la vita
in un terribile crepitio; come se le cose inghiottite al suo passaggio
lanciassero un ultimo grido disperato. Me ne portavo dietro il calore e un’aria
trasognata, quando era l’ora di andare, perché anche se fratello, rimaneva
sempre maschio e non ci era concesso di dormire nello stesso monastero. Me ne
restava l’odore di fumo nei capelli ad onta di qualcosa, anch’essa biasimevole,
che non si doveva fare. Iniziò allora un tempo dilatato in cui le azioni e le
giornate potevano rovesciarsi le une nelle altre come le onde nel mare. In un
convento la vita è scandita dal suono di una campanella, da orari fissi,
regole, divieti, brevi ma esaltanti concessioni. Nella stagione buona, quando
l’aria si addolciva, alle “ragazze del collegio” era permesso fare lunghe
passeggiate, dopo la messa, alla domenica. Si andava per i prati, verso la
collina di San Pietro in fila indiana, subendo i motti strafottenti dei ragazzi
per cui la nostra somma, numeri di un pallottoliere, era invariabilmente sempre
uguale a zero. Noi scalciavamo sassi e ridevamo desiderando un’altra storia, un
cuore che finalmente si potesse usare. Nella gioia di quella libertà concessa
c’era sempre il vento e un grande albero nel cielo tiepido di primavera. Le
gemme soffici spuntavano dai rami neri a fiocchi, cariche di promesse; c’era un richiamo in quell’aria, un odore
dolce velato appena di malinconia. Promesse vane: la vita si ripeteva uguale, arresa
a se stessa.
Poi sono arrivate le
giornate fredde in cui l’oscurità mi sorprendeva quando alzavo lo sguardo dai
libri alla finestra, nello studio dove passavamo tutti i pomeriggi dell’inverno.
Era un’aula di scuola la mattina, e conservava quell’odore un po’ stantio di
corpi, di banchi vecchi e vecchi libri. Il freddo penetrava dentro le mie ossa, sotto la maglia
di lana rigida e infeltrita per il troppo uso. Silenzio, brusio, silenzio. Sssssst!
Il tempo sembrava non passare mai. Ma passava, le “sante feste” arrivavano a
intervalli regolari come scherzi del destino, quando ritrovare i miei fratelli
era una gioia che prevedeva il suo dolore di distacco, di arrivi, di partenze,
di stazioni, di saluti svaniti dentro il fischio di un treno. Perduta in
lontananza, oltre un bivio di binari, la nostra vita continuava, decisa a
tavolino da qualche luminare della psiche. Per il nostro bene si enunciava che
l’unione sarebbe stata disastrosa, quale fantasmagorico teorema! Meglio da
soli, si, meglio soli a combattere i fantasmi della sorte. Pure quel mio
mutismo ostinato, con cui mi difendevo dalla gente, non era sano; me ne
facevano una colpa a volte, quando qualcuno se ne risentiva imbarazzato, certo
non si doveva, certo. Me ne sarei dovuta vergognare!
Era
il mondo degli adulti che si scontrava con il mio, la facciata ipocrita che non mi rassegnavo a rispettare. Gli
adulti. Oh! Gente perbene. Mi ospitavano nelle loro case, carichi di cosiddetta
carità cristiana ed io li ripagavo con una timidezza temeraria che, a quanto
pare, appesantiva l’aria della festa. Mi sarebbe bastato che non facessero più
caso a me, allora come un topolino spaventato forse sarei uscita dalla tana;
piano piano, con circospezione, studiando gli angoli in cui sarei potuta andare
a riparare. Mi sarebbe bastata la penombra, mentre loro mi puntavano una
torcia, mi sarebbe bastata una parola. Una parola per sapere che potevo stare,
semplicemente identica a me stessa, nell’angolo che mi ero scelta senza dovermi
vergognare.
Con
le mie compagne la mia corda un po’ stonata vibrava un’altra melodia, quel mio
essere diversa mi bastava. Costituiva anzi la mia forza con cui sfidavo il
mondo, un mondo che chissà dov’era; fuori, da qualche parte, nel riflesso del
sole, nel sorriso di un ragazzo che potrebbe essere stato il mio. Si…in
un’altra dimensione, se fossi stata bella, se fossi stata bionda, se fossi
stata. La mia vita nata fiume scendeva
gorgogliando nel suo letto limaccioso, ora placido e tranquillo, ora
pavoneggiandosi irruento, acquistando nella pendenza velocità e fragore, con la
rabbia degli spruzzi cristallini a mescolarsi col biancore muto della spuma,
vapore fatto aria. Parole di piuma e vento.
Se
non fossi stata qui, su questa pagina, non sarei mai esistita. E ora che sono
qui mi chiedo cosa sono stata: tanto di tutto e niente. Ma quello che sono ora
lo devo alla mia Isola e a quella nave che non è passata; lo devo al freddo, al
fuoco, al vento e ad una nuvola che si è fatta pioggia. Lo devo al fiume e al
grande albero che mi ha cresciuta.
Chiara Mutti
(esca)Poesia: Gabriella Ciandolo
Ascoltavo
Di Gabriella Ciandolo
Di Gabriella Ciandolo
Ascoltavo
lo sciabordio del mare,
ed i pensieri
si tinsero di spuma
argentata.
L’oro del sole
mi accarezzava l’anima
e le tue dita,
com’ali di gabbiano,
scolorarono
sulla mia pelle,
cancellate dal vento.
Sono tornata,
sull’orma dei miei passi
ma il giorno era finito,
tra le sconvolte dune.
Volevo ancora dirti
che ti amo,
creando un ponte
tra gli spazi lontani,
e la musica mi ha
sorpreso,
con l’arte della fuga
di Bach.
Ho abbracciato la notte,
nell’incerto sentiero,
respirando l’umido
delle bouganville,
cercando un rifugio di
baci,
ma la casa era deserta.
-Solo echi lontani-
Tu non c’eri.
(esca) Poesia - Giusy Morrone
MARE
E mi
fermo a guardare
il
ritmo fluttuante del mare
che
da sempre modula la sabbia, a volte
rabbia
che frusta la riva e s’infrange
si ritira
e
seguo il ritorno dell’onda ormai spenta
lenta,
tra sassi imperlati di sale
mi
assale
riflette
lamelle
diafane di luce opalina
profilo
di luna
su
fondo carbone
alla
quale ululo addosso il mio amore.
11 Maggio 2009
SEA
And I stop to look
fluctuating rhythm of the sea
that has always modulates the sand, sometimes
anger, lashing the shore and shattered
retires
and follow the wave back off now
slow, among stones beaded salt
I am assailed
reflects
translucent strips of light opal
Profile of the moon
the bottom of coal
which wail on him my love.
And I stop to look
fluctuating rhythm of the sea
that has always modulates the sand, sometimes
anger, lashing the shore and shattered
retires
and follow the wave back off now
slow, among stones beaded salt
I am assailed
reflects
translucent strips of light opal
Profile of the moon
the bottom of coal
which wail on him my love.
MER
Et je m'arrête pour regarder
le rythme fluctuant de la mer
qui a toujours moduler le sable, parfois
colère, d'arrimage de la rive et brisé
prend sa retraite
et suivez les vagues au large de retour aujourd'hui
lent, parmi les pierres perlées sel
je suis assailli
reflète
bandes translucides de lumière d'opale
Profil de la lune
le bas de charbon
dont lamenteront sur lui mon amour.
Et je m'arrête pour regarder
le rythme fluctuant de la mer
qui a toujours moduler le sable, parfois
colère, d'arrimage de la rive et brisé
prend sa retraite
et suivez les vagues au large de retour aujourd'hui
lent, parmi les pierres perlées sel
je suis assailli
reflète
bandes translucides de lumière d'opale
Profil de la lune
le bas de charbon
dont lamenteront sur lui mon amour.
Giusy Morrone
(esca)Poesia: Tizian Marini
NEL TUO FIRMAMENTO
GELSOMINO STELLATO,
VERDE CIELO CHE PUNTEGGI
IL LUNGOROMA A
GIUGNO,
LUMINARIA DI SIEPE,
PROFUMO NOTTURNO…
QUAL’E’ IL POSTO DELLE COSE
QUAL’E’ IL POSTO DELLE STELLE
QUAL’E’IL MIO POSTO
NEL TUO FIRMAMENTO
IL RITMO GIUSTO DEL RESPIRO,
IL SONNO SAZIO,
LA DISTANZA FRA L’OCCHIO
E LE SUE CIGLIA…
CIELO CADUTO
NEL MIO CIELO,
NIDO SENZA VENTO,
MISURA D’ARMONIA..
BREVE GIOIA, PAURA.
VIENE L’ESTATE
E TU NON CI SARAI.
IL MIO PESO NEL MONDO
IL PESO DI ME IN ME,
QUEL POCO CHE SCAVA
UN SENTIERO…
IL MIO PESO NEL MONDO.
MA HO CAMMINATO
FERMA IN UN PUNTO,
UN FAZZOLETTO
UNA MANO,
UN FOGLIO…
COME PAROLA
SENZA VOCALI.
(esca)Poesia: Angela Campitelli
Inaspettato uomo
di Angela Campitelli
di Angela Campitelli
Accadde
all’improvviso.
Senza
avere il tempo di riflettere.
Fu
un tuffo nel cuore.
Non
fece rumore!
Immerso in me
diventasti mio!
Solo la lontananza,
rese la mia vita un tormento!
Il
desiderio del tuo ritorno;
la
lunga attesa.
L’amore,
gioca
effetti
paradossali!
Sei mio, solo mio,
e pur lontano,
divenne pensiero costante
il tuo nome.
Legato,
alle cose
di
tutti i giorni.
Le
parole.
Le
carezze!
Le promesse, giocate
con maestria,
mi rendevano unica,
tra le altre! Amata!
Eppure,
la realtà,
presentava
il conto!
Il
dolore, il tormento,
l’ossessione,
presero il ricordo dei sorrisi,
dei tuoi ritorni. Inganno,
è la passione, che vede
l’amore dove c’è, assenza!
Un
luogo desolato,
se
ti penso.
Inspiegabile
combinazione,
veder,
ciò che non esiste!
Provare, quel che non vorresti!
Eppur, quando torni,
la stessa gioia, e, quando parti,
lo stesso dolore!
(esca)Poesia: Maurizio Stasi
Dedicata ad Inghe
Di Maurizio Stasi
Di Maurizio Stasi
Cara
vecchia Inghe!
Mi
ricordo ancora quando,
studenti,
venivamo alla “Casaccia”!
Un
vecchio caseggiato rossiccio,
dove
avevi impiantato
“Er
mejo prostibblolo de Roma”!
Portavi
sempre quella tua giarrettiera
di
trina bianca, con la coccarda d’oro!
Te
l’aveva regalata quel tuo arciduca,
nel
diciassette, quasi sessant’anni fa!
Nel
diciassette avevi quindici anni,
due
occhi di mare ed i capelli di grano maturo!
Eri
giovane, bella, e già battevi
la
difficile vita dei prostiboli di città!
Ma
quanti uomini aiutasti
ad
attraversare il Tagliamento dopo Caporetto!
Quanti
ne salvasti dalla prigionia, dalla morte!
Quanti
ne rimandasti, sani, alle loro case!
Mia
vecchia Inghe!
Nel
quarantadue, ad El Alamein, c’eri anche tu!
Furono
le tue mille lire,
guadagnate
in centinaia di notti d’amore,
a
salvare la seconda sezione mitraglieri!
Comperasti
mille litri di benzina dai tedeschi in fuga!
Furono
poi le ore tristi del quarantatrè!
L’armistizio!
La guerra di liberazione!
Quante
notizie, sui movimenti dei tedeschi
fornisti
ai Badogliani, alla Garibaldi!
Quante
vite salvasti trasportando medicinali,
viveri,
armi, munizioni!
Campagna
del quindici-diciotto!
Campagna
del 43-45, sul tuo petto,
ma
soprattutto, tre generazioni di Italiani
allietati,
da te e dalle tue donnine!
Perché,
tu Inghe, non hai voluto
né
onori né gloria, ed onori non hai avuto!
Sei
rimasta sempre te stessa!
Un
gran puttana! “La mejo de Roma” però!
Lo
dicevi sempre tu!
Al
tuo funerale oggi, non cè nessuno.
Né
i giovani del novantanove,
né
i partigiani della Garibaldi!
Anche
i figli tuoi, che non uccidesti,
hanno
scordato la tua bara!
Addio,
vecchia grassa Inghe!
Io
ti saluto come la migliore Donna,
che
abbia mai conosciuto!
(esca)Poesia: Sarah Panatta
Sguardo di sale
di sarah
panatta
Umori
takeaway, desideri ipnotizzati, rituali
della fame
frustrati, laccati, scaffalati
Aria
salmastra inchiostra borghi, portici, strisce e pedoni
e sorprende
il teatro dei burattini, rianimato
dall’artificio
della sera in identiche porzioni
Consuntivo
di supposizioni snob,
arma di
pretese difensive e di invasioni controllate,
la pupilla
fissa perlustra
indugia
trova
moltiplica e non oltraggia l’ammucchiata del ‘corso’,
coreografia
del presente imbalsamato,
senza testa
sghembo torso
Mentre
spaurita sventa rasenta i grumi coatti
dell’umanità
che non ama guardarsi e si lascia solo guardare
Nera
testarda raminga, testa il contatto
in pose
impermeabili
Frutto di
antico patto,
determinato
sfratto
Iscriviti a:
Post (Atom)