giovedì 1 agosto 2013

(esca)Racconto: Chiara Mutti


Le scarpe





Era tornata. Così com’era andata, era tornata. Ci aveva abbandonato nell’attesa, ci sono vuoti dentro e terre di nessuno e buchi neri che non voglio ricordare, solo un’immagine di buste della spesa e di una scatola di scarpe; del resto non importa cosa, quelle scarpe erano belle, le più belle che potessi avere.

Deve essere stato mentre le provavo, o forse poco prima…ma lei, la mamma, era già lì,  temevo la sua comparsa come si teme il verdetto per una condanna ingiusta. Per molte notti mi ero sforzata di rimanere sveglia, vegliavo quella verità, qualcosa che prima avevo già intuito ma che non ero stata in grado di capire. Ora la mia paura e suoi fantasmi si chiamavano per nome e quel nome mi teneva sveglia.

Quella mattina, la mamma, rivendicava i suoi diritti su di lei: doveva assolvere il suo compito di corpo-pentacolo per le sue linee magiche: era necessario voltarsi e lasciarla fare, solo questo, lasciarla fare.

Le sue formule ricadevano sulla tua schiena come una tempesta: Dio, la Madonna, il bambino Gesù ti segnavano la schiena per scacciare il diavolo dalla sua testa. Era una strana testa, la sua, piena di esorcismi, di idee assurde di cui mi vergognavo e della cui vergogna mi sentivo in colpa. I suoi deliqui erano incubi lontani nella notte, li calpestavo in prati incolti lungo periferie che la città stava ingoiando nel cemento. Roma si abbarbicava sulle sue pendici dilatando il ventre come una gatta incinta…i suoi figli, sempre più numerosi, occupavano cellette di cemento accatastate in verticale, anime nervose e senza occhi. Lo sguardo, interrompendosi sulle finestre frantumate nell’occupazione, fissava notti più inquietanti; notti trascorse sull’asfalto di strade appena nate che sembravano voler esplodere nel verde e si arrestavano nel niente. 

Mi assaliva, allora, uno smarrimento un senso di desolazione a cui tentavo di sottrarmi fuggendo le sue lacrime, giocavo a testa bassa con il colore del cappotto che si trasfigurava sotto lunghe file di lampioni dal colore freddo, esausto della notte.

Alle volte si arrivava fino a San Lorenzo che immoto troneggiava pallido a lato della piazza, smarrito nel suo straniamento alla città. Mi regalava un’emozione costellata di visioni, di luci colorate appese al cielo, così vivide che ancora splendono nel cuore dei ricordi o dell’alone tremolante dei lumini del Verano che costeggiavamo ritornando a casa. Mi attraevano come falena ipnotizzata dalla luce, verso un mistero che non conoscevo ed il cui nome, a quell’età, non si era autorizzati a pronunciare.  Potevo abbracciarli tutti, in un solo colpo, dall’alto delle  tue spalle grandi di sorella - le stesse spalle che ti rifiutavi di voltare - Perché non ti voltasti, perché? Con il tuo odio e la tua rabbia la sfidavi, forse volevi, forse dovevi pagare il tuo tributo di capelli e grida e noi una moneta tintinnante di paura. I tuoi capelli, lunghi e neri, si contorcevano nella violenza della lotta come le serpi di Medusa fino a quando sfinite, a terra, si arrendevano, a ciocche. -

Io ammutolivo in loro il mio dolore, percepivo il dolore nelle mie radici.  Fu quella volta.

Mia sorella riuscì a divincolarsi, aprì la porta e corse fuori, invano…io e mio fratello, come due uccelli senza nido, non sapevamo più dove posarci;  sul pianerottolo di casa il tempo si era scisso congelando l’attimo assieme alle mie gambe mentre le loro grida soffiavano verso di noi un’aria calda - come di nuvola gonfia di pioggia trattenuta. La nostra anima incapace di fluttuare verso cariche opposte, ci impediva qualsiasi movimento e io attendevo, prigioniera di quell’atmosfera stupefatta, che il volto pallido di mio fratello muovesse una decisione anche per me.

Poi fu scroscio improvviso di temporale, cieco di lampi e tuoni, a scaraventarci in corsa convulsa per le scale. Con un ultimo strattone mia sorella si era liberata, io, dimenavo i piedi e correvo a vuoto ubbidendo ciecamente al loro appello, senza sentire il male della loro stretta; le scale di marmo scorrevano sotto i miei occhi come fantocci dietro un finestrino, in una fissità di bianco e vuoto  /  bianco.

Quanto ci rincorresti madre? Cosa agitava il braccio alzato per colpire? Mi sono sempre chiesta quale fantasma rincorrevi nella corsa, quale mondo separato brandisse la tua arma, io non ti vidi eppure ti sentii fino nel cuore che pulsava sangue.

Il cortile, ultimo brandello delle mie prigioni, ci accoglieva nel suo ammonimento di rimprovero al silenzio. Tutta l’umana umanità era assente, stretta dietro le porte chiuse nel rifiuto, che condanna e teme.

A volte torno a chiedermi se sarei morta; non so, credo che all’oggi nulla importi: sono sopravvissuta. Ho steso la coperta del silenzio sulle notti che accompagnano i miei giorni, notti di denti consumati dentro un sogno che non posso ricordare. Tutto si è rimpicciolito, come un abito lavato male che non riesce più a passare dalle spalle; una dicotomia d’immagine che torna. Mentre l’osservo, da lontano, mi sento Alice nel paese delle meraviglie che tenta di rincorrere il suo Bianco-vuoto. Appartate e un po’ nascoste, nel bianco, ancora bianco sudario dei ricordi le mie scarpe nuove - le scarpe perdute, abbandonate nella stanza antica della mia memoria - conservano il loro amore sconosciuto. Lo perpetuano nella promessa.



Chiara Mutti

1 commento:

  1. Una tempesta, un buco nero nello stomaco...le emozioni forti che provengono da questo racconto dove l'angoscia e la vita smaniano vorticosamente.
    Un racconto duro e bello.
    Un saluto
    Monica

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