sabato 1 giugno 2013

Vacancy- Domenico Donatone

I linguaggi della rabbia o la rabbia dei linguaggi?
di Domenico Donatone




Alla luce dei fatti accaduti in questi ultimi mesi, sicuramente gli spari di Luigi Preiti sono i più rumorosi. «Volevo uccidere i politici», ha dichiarato dopo l’arresto. Però si fa difficoltà a credere che tutto ciò sia il risultato di un clima d’odio messo in atto da un kamikaze del cambiamento politico. Il nome? Beppe Grillo. La prova? Il titolo in prima pagina de IlGiornale: «Il Grilletto». A parte l’allusione che è quasi diffamatoria, si può affermare che basta un uso spropositato del linguaggio per decretare un clima di violenza? Di sicuro, no. La violenza è accompagnata sempre da un cedimento che, al di là della condizione circostante, emerge arbitraria o collettiva, accompagnata a volte da disturbi psicofisici. Di certo nelle dittature il linguaggio è martellante, fa leva sulle coscienze affinché ci si convinca che è giusta la violenza. Anche i Futuristi non scherzavano quando sostenevano che bisognava "glorificare la guerra come sola igiene del mondo". Una purga nazi-fascista che si è avverata. Il punto è che la violenza è propria dell’uomo mentre il linguaggio è retorica. In molti casi dire significa non solo comunicare ma manipolare. Le dittature fomentano la violenza per meglio tenere compatti i ranghi. In letteratura le cose sono un po’ diverse, perché se è vero che si parla e si scrive non solo per dire e comunicare, ma anche per agire, non bisogna dimenticare che il linguaggio è traduzione. Una cosa detta è una cosa che viene subito tradita, cioè assimilata nel modo in cui si comprende. In questo senso il linguaggio non solo crea ma distrugge, per cui è anche pericoloso. Questo ce lo insegnano le Avanguardie storiche che intuiscono che il linguaggio, nel suo insieme, è dinamite. Non a caso nel 1909 i futuristi forniscono un gergo al Fascismo, mettono la loro intelligenza a servizio del potere e, nella palingenesi del cambiamento, forniscono l’alibi più forte alla dittatura: la causa è sempre giusta. In una dittatura il linguaggio è azione, nelle democrazie è partecipazione. In politica, invece, è compromesso, rinuncia a combattere. Che esista un linguaggio della rabbia è ovvio, così come è risaputo che i "vaffa" di Beppe Grillo, così oltraggiosi, sono la semplificazione di un programma politico che deve trasformarsi in azione costruttiva. Tra i linguaggi più pericolosi, quello della politica è al primo posto per apologia e per retorica inconcludente. I linguaggi migliori sono quelli dell’arte, della letteratura, perché rappresentano la rabbia dei linguaggi. Espressione di un sentire così profondo che diventa costruttivo: paradigma di una riflessione che non ha eguali. La rabbia dei linguaggi è sicuramente molto più costruttiva dei linguaggi della rabbia. È vero, anche Beppe Grillo non sa comunicare con quella cautela che la condizione storica attuale richiede, però non è vero che il suo dire è così aggressivo da confermare quanto scritto dai giornali, che il responsabile dell’odio sociale è un ex-comico che ha deciso di creare un movimento grazie ad una indiscutibile capacità monologante. Conviene confrontarsi sulla rabbia dei linguaggi più che sui linguaggi della rabbia. Questi ultimi possono essere sciolti in una dialettica di più ampio respiro. Cito Pasolini. Cito un intellettuale che conosceva molto bene la rabbia, tanto da titolare una sua poesia: «Perché non reagisco, perché non tremo | di gioia, o godo di qualche pura angoscia? | Perché non so riconoscere | questo antico nodo della mia esistenza ? | Lo so: perché in me è ormai chiuso il demone | della rabbia. Un piccolo, sordo, fosco | sentimento che m’intossica: | esaurimento, dicono, febbrile impazienza | dei nervi: ma non ne è libera più la coscienza. | Il dolore che da me a poco a poco mi aliena, | se io mi abbandono appena, | si stacca da me, vortica per conto suo, | mi pulsa disordinato alle tempie, | mi riempie il cuore di pus, | non sono più padrone del mio tempo. ||» Questi versi sintetizzano il vero clima che si respira. Ciò che si respira indubbiamente contagia i nostri polmoni, però la vera rabbia è data dal non essere più padroni del proprio tempo. Come si fa a lottare senza rimanere scontenti? Pasolini ci spiega anche questo. Ci spiega che l’unica lotta che può far sentire l’uomo ancora uomo e non una bestia è progredire col pensiero, conoscere, sapere che la rabbia che si fonde nel linguaggio trova ragione di dignità nell’azione civile. Che le armi, che anche Pasolini desiderava impugnare per afflizione, non consentono di tornare indietro, di pacificare il contratto sociale. Siamo in guerra, è vero, ma chi sa più combattere? La strada conveniente è ragionare.

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