di Sergio D'Amaro
(Pubblichiamo con piacere una parte del romanzo breve L'allegra vita della signora Mariù', attualmente inedito. Come ci avverte lo stesso autore "giocato su un finto diario d'epoca tra il '35 e il '60. Nel pezzo, l'incontro della protagonista col suo futuro sposo". Ndr.)
“La
politica a Mussolini,
la vanga a
noi,
la musica
quando si può”
1938, primavera
“…A-a-bba-a-ssa la tua ra-a-dio per
fa-vo-o-r …i ba-a-ttiti del tuo cuo-o-r…”
La
radio suona leggera come la primavera che svolge velocemente il suo corso.
Nell’aria c’è un richiamo di viole e di arance che si unisce alle brezze
salmastre del mare. Non so se a ventitré anni si può essere padroni di qualche
speranza. Io, nella situazione in cui sono, felice di questa musica, di questo
tempo ridente, di questi profumi, ho diritto alla speranza. Oggi sento di essere
nel pieno dominio della mia giovinezza, perché sento che la realtà è con me, il
mondo gira attorno a me e io sono una stella pina di luce. La natura può farmi
rinascere e farmi risplendere come il primo giorno sulla terra.
“…
A-a-bba-a-ssa la tua ra-a-dio per fa-vo-o-r…”
Tra un
mese mamma e papà festeggeranno le nozze d’argento. Io potrò indignare il mio
nuovo vestito che mi ha cucito Lina, la nostra sarta di fiducia. Discretamente
scollato, con una cintina rossa e molti pois: come a dire “Svegliatevi sensi,
camminate svelti nella mente dei ganimedi e accettate di buon grado ogni più
piccolo refolo di libertà”: roba da far invidia alle ‘Tre Grazie’ e a ‘Donna
Clara’, che pure non scherzano con l’estetica e i cardiopalmi da innamoramento
multiplo. Specie ‘Donna Clara’, con quel suo Arturo irraggiungibile, fatale,
amico di Faust. “Ieri Arturo mi ha guardato. Ho letto nei suoi occhi che mi
desiderava”. Oppure: “Arturo non mi guarda. Gli ho fatto qualcosa, ho offeso la
sua sensibilità? Oppure, ancora: “Se mi portasse un mazzo di rose, cadrei ai
suoi piedi”. Ma Arturo non guarda anche quando vede e non porta mai fiori,
anche se, dicono, ne è appassionato. E allora?
Facendo
i conti, mamma e papà si sono sposati nel 1913. Un anno assolutamente insapore
e inodore, eppure è l’anno che precede la Grande Guerra. Due anni più
tardi sono nata io e questo è assolutamente importante. Molte cose sono
successe nel frattempo e hanno cambiato il mondo e l’Italia. ‘Carducci’, il
professore d’italiano, ce l’ha detto e ripetuto fino alla noia: “Guardate,
ragazzi, che il mondo è cambiato. Non viviamo più nel secolo ordinato
dell’Ottocento, dei sentimenti nobili, delle grandi imprese. Oggi solo un uomo
è stato capace di far rivivere il buon tempo antico ed è il Duce, nostra guida
e nostra unica speranza. Con lui abbiamo ritrovato il senso smarrito
dell’esistenza e la dignità della Nazione”.
Uscite
dalla scuola, abbiamo dimenticato le parole di ‘Carducci’. Il mondo è
ugualmente interessante senza essere un modello di ordine o ligio ai più nobili
ideali. Perciò non rimpiango l’Ottocento, i suoi abiti a cupola, le candele
tremolanti sul far della sera, le carrozze a cavalli. A me sembra che un tale
atteggiamento ce l’abbia ‘Mimì Bluette’, con le sue nostalgie romantiche e le musiche
che invadono lo spirito.
Non mi
piace, d’altronde, neanche l’Impero, l’ossessione di diventar grandi ad ogni
costo, la gara di chi ha i muscoli più duri. Qui ha ragione il signor
‘Manzoni’, il ragioniere in pensione del piano di sotto che sa tutto
sull’autore del “Cinque Maggio”. “Manzoni approverebbe” e “Manzoni non
approverebbe” sono le due frasi più solite che si possono ascoltare dalla sua
bocca educata all’equilibrio del Gran Lombardo. “Manzoni non approverebbe” dice
il ragionier Leonardi “questa vergognosa corsa alle armi che sta facendo
l’Italia, questo scialo di soldi, di uomini e di mezzi per mantenere occupata
qualche terra africana arsa dal sole”.
Il 24
giugno è arrivato nel nome di San Giovanni. Zia Anna ha curato la lista degli
invitati e il menù della cena che sarà offerta. Escluso l’agnello, che io non
vorrei mai sacrificato ad una festa, tutto il resto mi va, fino all’affogato e
ai liquori. Ma non sarebbe stata meglio una Saint-Honoré? Nella lista, dopo
‘Donna Clara’ e le ‘Tre Grazie’ (la cui presenza ho difeso con forza), ho visto
con meraviglia il nome di un certo Felice Tirinnanzi. Mi sono informata e ho
scoperto che si tratta dell’amicizia più recente di mio fratello Giuseppe.
Forse è uno di quegli intellettualoidi che a lui piacciono tanto, un po’
spocchiosi e molto attaccati ai loro grammi di sapienza. Però non ne sono
sicura, potrebbe essere una sorpresa.
La
giornata si è annunciata molto calda, già fin dal mattino. Mamma ed io siamo
corse ad innaffiare i gerani, temendo che non avessero abbastanza acqua per
resistere. Paura come sempre infondata e un po’ pericolosa giacché i fiori
preferiscono rinfrescarsi la sera. Non ho potuto evitare, purtroppo, di versare
inavvertitamente mezza della caraffa che avevo in mano fuori dal vaso più
piccolo. L’acqua ha ruscellato giù finendo sulla spalla di comare Nunzia, che
ha un negozietto di alimentari. Ha guardato su e ha solo salutato, dicendo
forse fra sé “Potreste stare pure più attenti!”.
La
strada è già animata di ambulanti, di facchini, di garzoni. Sono sbucati anche
i bambini per giocare a rimpiattino e a palline di vetro sulla piazzetta con al
centro una fontana. Lontano, attraverso l’arco del Castello, guardo per un
momento il mare e scorgo una vela piccola piccola. Dalle case vicine con i
balconi aperti le radio accese si sentono come uccelli cinguettanti. Riconosco
qualche nota di “Sentimental”, di “Tornerai”, di “Bambina innamorata”. Il sole
mi sembra entrare più generoso nelle stanze, come se quell’ora, quei suoni,
quelle visioni, si dovessero fermare in una fotografia staccata dal tempo.
Clic… e questo 24 giugno fermo sul calendario per sempre. Clic … e mare, vela,
piazzetta, fiori, voci, canzoni, uniti per sempre in un abbraccio eterno di
sensazioni.
Ho
visto, passando nella camera da letto, il vestito di seta che mamma indosserà
stasera. Ho indovinato a chiamarla qualche volta nel mio amor filiale ‘Greta
Garbo’. Quella stoffa preziosa, i fini disegni stilizzati, la scollatura
audace, mi dicono che arriva da lontano. Papà l’avrà scambiata con una grossa
partita di arance a Trieste o l’avrà commissionata a qualche fido murlak di
Spalato. Sta di fatto che è qui e aspetta intorpidito un po’ di fresco della
sera.
Nel
pomeriggio l’aria s’è fatta pienamente estiva. Abbiamo fatto un pranzo
contenuto, come chi teme giustamente una cena fuori del comune. Malgrado
questo, stiamo rispettando tutti l’ozio della controra. Distesa sul lettino già
mi prende un forte impulso di vagheggiare. “E ondosi drappi e gonne agili e
bianche, / come piume di cigno, e argentei veli / … Tutto, qual per incanto, a
sé davanti / vide la bella fata; e il cor di donna / con precipiti palpiti
battea”.
Vaneggio, è il caldo o l’attesa della festa, quell’incalzare di emozioni
contrastanti che vanno dall’entusiasmo alla depressione, dall’esaltazione per
ciò che proverò all’effimero tempo concesso a tutto questo. La bellezza di
mamma sarà come “la rugiadosa candida camelia, de’ suoi vivi smeraldi appena
schiusa”. Le brillerà negli occhi “un recondito lume, le guance avrà di rosea
luce giovanil”. Sarà innocente e voluttuosa, tentatrice e nostalgica.
E
anch’io, quando saranno trascorsi venticinque anni del mio matrimonio, potrò
vestirmi di seta e trionfare tra gli amici e i parenti che ammirano ancora la
mia bellezza. Anch’io, anch’io… quante volte mi ci sono messa in mezzo e mi
sono identificata nella Regina Cristina o in Mata Hari. Io, la ‘Bella
Sulamita’, l’allegra e mite Mariù.
Finalmente l’orologio a pendolo ha scandito le otto. Dopo zia Anna,
‘Donna Clara’ e i nonni, sono arrivate le ‘Tre Grazie’ e due dei ‘Quattro
Moschettieri’, accompagnati dal nuovo amico di Giuseppe. Felice Tirinnanzi è
studente, appena iscritto, di Lettere. Niente male Felice, con quel vestito
tagliato decentemente, gli occhiali senza montatura, le scarpe di capretto.
Così a prima vista, sembra potersi assegnare alla genìa degli intellettuali,
capaci di almeno una metafora ogni dieci parole. Avvicinandomi per la
presentazione ho scoperto che usa Tabacco d’Harar in quantità sufficiente a
stordire una fanciulla in fiore. È forse questo, insieme a certo modo gentile,
direi quasi raffinato, di porgere il discorso e ad una timidezza di fondo mal
dissimulata, che lo rende subito accettabile.
Alle
nove e un quarto siamo tutti a tavola a mangiare la seconda portata di carne.
Il vino e l’eccitazione di trovarsi insieme hanno già fatto moltiplicare le
conversazioni rendendole quasi tutte banali per chi le ascolta. Suona il
campanello. È ‘Manzoni’ che porta i suoi complimenti e regala a papà, guardando
ammirato le sete di mamma, una copia del suo saggio sulla villa di Brusuglio.
Non più uno studio dei luoghi, ma addirittura uno studio degli angoli: c’è
l’elenco completo dei ninnoli del comò, un inventario delle piante ornamentali
e delle penne (sì, proprio penne) usate da don Alessandro e rimaste intatte
sulla sua scrivania. ‘Manzoni’ se ne va con un mezzo inchino davanti a mamma e
finendo di masticare un confetto al rosolio.
‘Donna
Clara’, chissà perché, è la più eccitata. Scodinzola con i ‘Moschettieri’ e si
alza spesso per abbracciare affettuosamente i nonni seduti. Mi pare che la sua
attenzione vada anche al nuovo venuto, dal momento che anche a lei piace il
Tabacco d’Harar. Arrivano altri telegrammi di auguri e tra di essi c’è quello di
zio Andrea. Scrive: “Altri cent’anni di prosperità e di gaudio – Stop –
Andrea”. È laconico fino all’avarizia, oppure va di fretta come la sua America.
Alle
dieci zia Anna si è appartata con l’album familiare e lo ha sfogliato
attentamente. Io ne ho approfittato subito e ho chiesto cose che non avevo mai
chiesto.
- I
nonni –mi ha detto – si conobbero in chiesa e restarono fidanzati per undici
anni. Una sola volta nonno sfiorò con la mano il viso di nonna. Tuo padre Carlo
e tua madre Carmela si amarono per nove anni. Carlo era sempre lontano e
correva voce che non fosse molto fedele. In cambio portò un anello di
fidanzamento che era una favola: quattro brillantini su un cuore d’argento.
- E zio
Mario – le ho chiesto all’improvviso.
- Oh,
zio Mario! – ha fatto con un sospiro che le ha fatto sgranare gli occhi e
alzare i mantice del petto – lui era un signore. Era impiegato del dazio e
sapeva cantare intere romanze della “Bohème” e del “Rigoletto”. Fumava soltanto
i sigari toscani… Ecco vedi … -indicandomi l’immagine di zio Mario – questo è
lui a ventisette anni davanti al suo ufficio. Il vestito che indossa è lo
stesso che io preferivo per le passeggiate domenicali verso Solarizzo e
Pescante. Bastava una distrazione di Carmela o di nonna Clara e lui mi inondava
di baci, sollecitando sempre più spesso la prova d’amore. Zio Mario è rimasto
l’unico amore della mia vita … Ah, ma guarda, qui sei tu a dieci anni alla
prima comunione, ricordi?
Mentre
zia Anna parlava, io mi ero distratta con Felice Tirinnanzi che mi guardava con
tre occhi e implorava almeno un acconto di compiacenza. Fingevo di ascoltare
mia zia, che ormai andava a ruota libera sull’onda dei suoi ricordi e da un
personaggio tirava un altro e un altro ancora. ‘Petronio’ stava con due dei
suoi ‘Moschettieri’ a discutere animatamente e ogni tanto dava l’intesa agli
amici di osservare felice. Avevano fatto bis di polpette e dei contorni di
insalata e avevano in mano il quinto o sesto bicchiere di vino. Certo, erano
già brilli, con o senza il consenso di papà.
Quest’ultimo e mamma apparivano più che compiaciuti. Papà aveva regalato
a mamma una porcellana di Boemia, cosa che solo un avviato commerciante di
agrumi poteva permettersi. Gli sposi giubilati si guardavano, poi si parlavano
all’orecchio e ridevano. Erano pieni di ciance e di tenerezze, tanto da far
raddrizzare qualche ruga ai nonni e farli sentire più giovani.
-
Quando farò le nozze d’oro – annunciò papà in tono solenne – promettetemi che
ci sarete tutti. Allora io sarò in pensione e avremo tanti nipotini che ci
faranno regali. Levate con me il bicchiere di spumante e brindate alla nostra
salute.
E giù
gli applausi dopo che avemmo bevuto.
***
Felice
Tirinnanzi è diventato Felice e quindi il ‘mio’ Felice. Il passaggio è stato
semplice, come semplice l’incontro e scontato il destino. Lo trovo affezionato,
tranquillo, romantico. L’impressione dell’intellettuale serioso e spocchioso è
svanita immediatamente. Appena ha potuto aprirsi con libertà ha detto,
riportando parole che solo lui ricorda, che “da tutta la persona tralucea
formosità d’amore e venustate”. Appena mi ha visto “negli orecchi sentì cupo
tintinno, fremito dilettoso in ogni vena, inesausto calor di fibra in fibra”.
Io che al linguaggio del melodramma mi sciolgo come una fontana, non ho saputo
resistere. Anche zia Anna se ne andava in brodo di giuggiole per il suo bel
Mario, cantore di romanze. In me evidentemente scorre lo stesso sangue. “Chi
può significar dei baci primi l’entusiasmo, l’impeto, la gioia, l’estasi nuova,
eterea, inenarrabile?”. Il mio “virgineo labbro” si dissetò alla scodella di
fresca rugiada della bocca di Felice, che continuò a inondare il mio naso di
Tabacco d’Harar.
Felice
è buono, gentile, romantico, un concentrato di cavalleria medievale. Era
destino che lo incontrassi e che l’amassi.
***
“…A-a-bba-a-ssa la tua ra-a-dio per fa-vo-o-r…”
Ascolterò la radio, nella mia nuova casa di sposata. Una Telefunken. La
casa di Felice e mia, naturalmente. Su di una poltrona Frau. Un quadro, una
stampa, un manifesto dell’azienda agrumaria di mio padre. La biblioteca di
Felice, tanti da Verona, Pitigrilli, Delly. Le foto di Nazzari e di Cervi. Sere
da gustare insieme, emozioni da provare, esperienze da condividere. Poi, signor
Felice e signora Mariù, sulla Balilla a goderci le vacanze e le gite. Molte
visite a Solarizzo, col mio cappello-ombrello, il foulard, la merenda dei miei
‘Romolo e Remo’. Una famiglia-tipo, felice, spassionata, giovanile. Guardare il
mare con Felice e i bambini, indicare la prima vela che colpisce l’occhio,
intridersi delle brezze saline e delle essenze dei giardini. Inseguire vanesse
e macaoni, cullarsi in eterno sull’altalena, catturare lucertole, riconoscere
fringuelli e cinciallegre. Poi scendere giù lungo la mulattiera stretta tra
macere e sterpaglie per sboccare alla spiaggia scossa dal grecale. Io e Felice,
romantica e romantico.
***
Sicuro
che Felice sia veramente cattolico?
Un
giorno che ascoltava una trasmissione alla radio, mi è parso propenso all’uso
del saluto romano che ha molto più di militaresco che di cristiano. Lui non
approva del tutto questa mia iscrizione all’Azione Cattolica. Io credo in
questa decisione e in questi ideali di solidarietà. Anche perché, caro Felice,
ho l’impressione che il mondo voglia andare verso qualcosa di strano, qualcosa
di molto pericoloso. Guarda l’Austria e quell’Hitler che ha una fame
insaziabile.
In
fondo a quella tranquillità, a quei sentimenti romantici, ho il sospetto che
Felice nasconda un’anima da ’Feroce Saladino’. Io la ‘Bella Sulamita’ e lui il
‘Feroce Saladino’? Usa profumi, incantesimi, gentili promesse. Può cambiare e
anch’io posso cambiare. Ma il gioco va fatto, la scommessa va tentata.
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