sabato 1 marzo 2014

(Esca) Racconto: Sergio D'Amaro

Tempi barbari


un racconto di Sergio D'Amaro







Non so più da quanti anni riposo sul penultimo scaffale a sinistra della biblioteca alquanto disordinata di Isidoro Curtorivo. Non so se lo sapete, ma la vita di un libro non è delle più facili, né gli vengono accordate molte gratificazioni. Si aspetta per molto tempo che una mano almeno generosa ti stringa con malcelato cinismo, sottraendoti all’oblio e riportandoti sul sentiero aspro della conoscenza. Allora una calda speranza invade le fibre inaridite e rinverdisce stagioni ormai trapassate, disegnando un sorriso inaspettato in mezzo ad una stazione piena di orari e di viaggiatori.

Non che la mia vita sia stata un tappeto di velluto ipnagogico, giacché i complicati trascorsi di Isidoro mi avevano più volte fatto cambiare casa, ambiente, posizione. Isidoro serbava un’incontenibile irrequietezza che lo aveva spinto senza sosta ad innumerevoli spostamenti da un luogo all’altro di una sua folle geografia. Più volte mi ero visto scaraventato sotto una fila di libri o nascosto dietro gli ampi fascicoli di riviste come il ‘Naviglio d’argento’ e ‘Metafore dell’ignoto’. Poi, miracolosamente, come dopo un sonno ristoratore, m’ero ritrovato di nuovo esposto agli occhi distratti di Isidoro, indaffarato a seguire suoi progetti tra mille carte sparse sul tavolo e per terra. Spesso seguivo le sue brevi, esaltate performance alla macchina da scrivere, dove le sue dita scattavano nervose per un’idea creduta geniale o per un progetto subito abbandonato. Quell’uomo ancora così giovane e così inquieto appariva del tutto aderente all’età che stava vivendo, preso nel vortice di una bufera dominata da contrapposizioni ideologiche e molte volte obbediente a sperimentazioni senza sbocco.

La prima volta che Isidoro aveva aperto quel libro misterioso risaliva agli albori della giovinezza e agli studi particolari che aveva scelto di intraprendere sulla scia di un puro piacere temporaneo. Era bastato ascoltare una conferenza alla Sala Redondi sulle complicate connessioni tra Basso Impero ed epoca barbarica per sollecitare in lui il sapore di un antichissimo cielo. Era stata l’intuizione di un mistero, lo strano, stranissimo desiderio di ritrovarsi, per non so quale miracolo della macchina del tempo, immersi in un secolo vicino alla caduta di Roma. Isidoro si figurava quel tempo come avvolto in una nebbia smemorante, intrisa di un colore lattiginoso. Quella visione, quella fuga piacevole, quel fantasma che da allora s’era affacciato come un sogno irrinunciabile, riempiva i momenti di sconforto. Era allora che si avvedeva che la fine di qualcosa coincide con l’inizio di un altro periodo, che una svolta, anche se drammatica, è in fondo frutto di un’impercettibile evoluzione, che nulla davvero si arresta ad un fermo risultato, ma invece si proietta in una direzione possibile che forse sarà vincente.

Su una delle strade che uscivano da Roma, Isidoro aveva colto il barlume di una comprensione superiore della storia. Nella Libreria Berardi, oltre ai libri di varia e di narrativa, dietro un capace cavalletto pieno di riviste, egli aveva potuto sfogliare un libro dalla copertina nera e blu. Erano strisce marcate sottostanti una scritta tutta bianca in caratteri che ripetevano l’antica carolina d’un imprecisato secolo attorno al Mille. Un’immagine irresistibile, misteriosa, audace, eppure antica nella sua testarda eredità, tanto da causare in Isidoro un’improvvisa vertigine di piacere. Si trattava di un libro erudito, preannunciato nella sua profonda dottrina dai colori della copertina. Ma questo suo carattere era piuttosto il segno di qualcosa di ancora più profondo, di qualcosa di ancora più antico, come se quelle pagine avessero un magnetismo speciale, capace di evocare immagini, profili, movimenti così distintamente avvertiti da riportare in vita intere vicende primordiali.

Con quel libro in mano Isidoro compì la svolta della sua giovinezza. Sulle strade che si diramarono da Roma durante i primi decenni dopo la deposizione di Romolo Augustolo, il suo spirito ipersensibile incontrò il sogno di una trasformazione annunciata nei testi della tradizione classica. Il clamore delle battaglie, lo scontro feroce di chi voleva salvare contro chi voleva distruggere, si levò fino ad ingigantirsi convocando sulla piazza sterminata del futuro i nomi stupefacenti di Cassiodoro, Boezio, Aviano, Sidonio Apollinare. Un mondo, poi un altro, così prefigurando anche per il tempo che avrebbe vissuto direttamente una speciale disposizione a conservare il testimone vivo del passato.

Non fu facile mantenere al timone la sua giusta barra. A quella specie di folgorazione seguirono stagioni di quasi intollerabile incertezza, di oscurità illuminate col sorriso dell’ironia, di umiliazioni elevate ad atletica resistenza. Per Isidoro fu importante ubbidire a sentimenti sempre più imperiosi, adattarsi ad una condizione di un naturale mercato di compromessi. L’immagine giovanile di una resurrezione, l’invito alla speranza che nulla si perde del tutto, la scommessa sul fatto che i tentativi valgono pure la frustrazione di un insuccesso, si depositò sul fondo standard di un Novecento benestante e soddisfatto. Isidoro scavò sempre più nella creta mobile del suo destino, plasmandone i miti, i paesaggi, i contorni più amati o più memorabili. Il tempo era una ruota che muovendosi lasciava cadere infinitesimi brandelli di terra spostata. Lo stesso apparente congegno, ma diretto di qua e di là secondo una linea pulsante, capricciosa, imprevedibile.

Quel colore blu e nero fissato molti anni prima si confuse ad altre mille sfumature, ad altre innumerevoli visioni. Si sciolse e si ricompose senza più possibilità di essere distinguibile, quando soprattutto i fari potentissimi di una discoteca cominciarono a riempire quello che gli occhi desideravano. Fu quasi un’allucinazione, un potenziamento di cecità talmente persuasiva da risultare piacevole. Mentre per le strade di molte città alcuni barbari assecondavano i richiami di guerra, Isidoro decise di scegliere la calda cioccolata dei Past Fever e di tutti quelli che cantavano uniti con le mani. Che bei Natali trascorsero insieme e come felici salutarono il nuovo anno!

Spinta dalla forza dei giorni, l’eco di quelle vicende era giunta fino all’anno 1999, degno delle sue cifre inquietanti. Sospeso nell’aria si avvertiva come un annuncio, come qualcosa che dovesse rivelarsi in tutta la sua forza divinatoria. Forse la tempesta del Bois de Boulogne, forse la morte di Johan Anellis, forse il crollo delle quotazioni di Standard Opportunity si congiunsero in una combinazione depressiva che produsse quella strana atmosfera di imminente catastrofe. Sentire vicina la fine di un mondo, tremare di fronte ad un altro anno Mille, prefigurare altri rovinosi tempi barbari, fu rabbrividente come una lama ghiacciata. Era stato così naturale arrivare fino a quell’anno scendendo rapidi le scale del Novecento ed ora se ne rimpiangevano tutti i momenti, tutte le occasioni, tutte le promesse!

Isidoro si ritrovò smarrito nei corridoi dell’abbazia di Valmartina. Stordito da quell’austera semplicità, da quell’autorevole mistero che si adagia come un fantasma sui muri scabri degli edifici secolari, si sentì pian piano scivolato in una quiete paradisiaca che sembrò d’un balzo ritornato alla sua infanzia. Le luci dell’impero erano state come quelle uscite gagliarde dai fari dei Past Fever. Ora le lampade soffuse di quell’antica fabbrica lasciavano librare la memoria e riattivavano il flusso del pensiero. Cosa fare di fronte ad una svolta, cosa desiderare prima dell’alba del mondo nuovo?

Seminate lìttere, diffondete sapientia, considerate radices. Come una parola magica, come un oracolo stava risuonando il Duemila. Isidoro non era certo che qualcosa si fosse rotto negli orologi, né che sopravvenisse una nuova era. Non credeva nei cinesi né nelle leggende dei Maya. Era stato solo rapito per un attimo da un’atmosfera irreale e seguendone il profilo ondulato s’era ritrovato già dall’altra parte.

Così avvenne che anch’io, in copertina blu e nera, doppiai il secolo. Non se ne avvide nessuno, né tantomeno il mio distratto padrone che nell’ultima visita allo scaffale mi aveva spostato ancora più in basso. Ero rimasto così dopo quarant’anni in bilico sul precipizio di un lungo oblio. Potei perciò assistere in questa posizione alle maggiori trasformazioni dell’umanità. Chiusero le serrande delle officine, vennero popoli dall’Africa, caddero alteri grattacieli. Mai che Pierre de Richefort facesse una grinza, corazzato nella sua divisa sgualcita da folle alfiere di altri tempi barbari.

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