sabato 1 febbraio 2014

(esca) Vacancy: Carlo Mazzacurati

La "lingua" di Carlo
Lungo addio al poeta del "nostro", altro, nordest

di Sarah Panatta


Un cristo perfetto. Povero, ricercato, tutti ridono di lui. Defilato, eppure presente, lui vede tutti.
 
I personaggi scritti e diretti da Carlo Mazzacurati galleggiano in questa manciata di indizi.
Cristi in croce ignorati e desiderati. Corpi sfruttati, vanificati, rinsaviti, ritrovati. Non si riconoscono nel pieno-vuoto della comunità d'origine, ma non riescono a rompere il cordone ombelicale con la provincia "arcaica" innestata da migrazioni, capitali, nuovi abiti e vecchi costumi. Evitano l'asfissia evadendo per una stagione o per un istante. Accolgono i linguaggi multipli del presente che stagna della fatica della valle/laguna ermetica, e soffrono nella decifrazione lenta anche se inesorabile.
 
Morto a 57 anni, il regista-poeta, cantore saggio e mai prudente, ibrido cultore della pianura muta e umida e dell'elettricità invisibile della colonizzazione tecnologica e culturale. Carlo si piantava nel mezzo ad osservare l'incontro tragico tra l'antico ancestrale pretesto del resistere e la contemporaneità quella velleitaria e urlante dei nostri anni italici, europei, barbaricamente ciechi, quella della molteplicità identitaria balbettante.
 
Dall'esordio trentenne, con Notte italiana (1987), al grottesco delizioso nonché grondante affresco de La passione (2010), da Il toro (1994) a L'estate di Davide (1998). Da La lingua del santo (2000) a La sedia della felicità (2014), passando per La giusta distanza (2007), forse uno dei migliori film italiani dal 2000 ad oggi.
 
La casette tarlate, basse sui vicoli orizzontali, le statue rapite, il riscatto della borghesia tradizionalmente ottusa ma positivista,  ladri in bicicletta, perenne crisi economica, la miseria sulle labbra delle nuove generazioni pronte a rosolare la schiena al sole, le amicizie sui letti d'ospedale, le cambuse oltraggiate, le spighe invasive nel passato rotto, le famiglie allargate e i clandestini vicini di sguardo, ultime cene sbeffeggiate e maestre ammazzate. Carlo inquadra cercando la giusta distanza, la registrazione emotiva partecipata ma asciutta del terremoto di civiltà.
 
La nebbia parlante del nordest, la marea lagunare, un respiro che regolare sale e scende, scandendo il ritmo interno di ogni opera. Il paesaggio della campagna indimenticabile che assorbe nuove forme di vita e nasconde pozzi sgretolati, non un "teatro di posa naturale" bensì un catalogo senziente di passioni e pensieri, una volontà stregata, un personaggio in sé.
 
Carlo è ancora là, sulla sua barca, sul pelo liquido della laguna di terra e d'amori, d'amare incertezze e di cuori acerbi, di cristi e di santi.
 
 
 

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