venerdì 1 marzo 2013

(Esca)Recensione. "The Summit"

The Summit, l’appello a vergognarci e a (ri)guardare


Non sappiamo fare “oh!” ma non ci vergogniamo neanche “un po’”. Sarcasmo inconsapevole, il ritornello sanremese del Povia-bambino qualche anno fa radiografava l’Italietta bifronte sempre uguale. Quella dei festival che oggi riescono a stupire nella mota degli stereotipi riscodellati con garbo, e quella dei processi civili azzoppati e dei diritti lesi, che non riesce a stupirsi né ad indignarsi mai, se non in qualche ravvedimento “flash”. Perché? Farsi domande e partecipare al passato-presente è così assurdo e intollerabile che si diventa, per contrappasso pilotato, invisibili.
La locandina del film di Franco Fracassi e Massimo Lauria
Lo ha denunciato di nuovo Franco Fracassi, reporter e regista, insieme a Massimo Lauria, con The Summit. Genova: i 3 giorni della vergogna. Se cominciassimo a vergognarci, di non aver visto e di non voler vedere, tutto tornerebbe. The Summit vuole imporsi come prima vera inchiesta. Gli autori districano tra le “connessioni”, i fatti, solo i fatti, di quel pasticciaccio internazionale e deliberato. Prologo. Un mezzo busto femminile, quadro urlante, restituisce la paura coattiva di quei tre giorni, dal 19 al 20 luglio, di manifestazioni represse e di attentato ai diritti essenziali. Ma il documentario raggela, nel fermo immagine disegnato, quell’urlo, che resta sottotraccia. Nessuna esasperazione empatica. Documenti, filmati, fotografie, testimoni, tanti. Fracassi riavvolge il nastro per nodi tematici, incastonando immagini che illuminano, chiedono. Quale strategia del terrore ha prodotto il caos-Genova, dal vertice di Seattle, passando per Napoli, Goteborg? Che cosa è successo in piazza Alimonda? Chi ha ammazzato Carlo Giuliani? Chi c’era sotto le maschere dei troppi diversi black bloc spesso nascosti dietro gli scudi dei poliziotti in assetto di guerra? Perché il massacro della Diaz? Quella Diaz che nessuno vuole scoperchiare, quella Diaz fraintesa, risarcita da condanne risibili.
La Diaz esplorata da Vicari nel discusso e conosciuto (e ben diffuso) Diaz. Don’t clean up this blood. Presentato alla Berlinale 2012 insieme a The Summit, opera totalmente indie, slegata da major produttive e non finzionale, che è stata ignorata in Italia, sino ad oggi, dopo un anno esatto, e che ha trovato uno spiraglio, per ora, in 10 sale, dal 21 febbraio.

Diaz scuote, The Summit cerca. Diaz “rompe” la verità specchiandola in “cocci aguzzi” di bottiglia, rifrange le prospettive spingendosi/ci in un flusso disgregante. Vicari sceglie gli angoli, i blocchi emotivi antitetici. Si infiltra nei piani di una sovrapposizione temporale caricata dal flashback iniziale, trattenuto e reiterato (la famigerata “bottiglia”). Poi ci immerge nell’imbuto dell’istituto Diaz, tonnara espiatoria, e i cocci tornano a coagularsi. Un pantano di sangue e di ossa rotte. In cui Vicari cataloga ravvicinato la risposta sorda dei corpi contusi, pestati dai “tonfa”, i pianti soffocanti, le grida delle decine di inermi ospiti.

Lo ricordano Fracassi e Lauria distendendo il groviglio-ferita di Diaz nell’inchiesta millimetrata di The Summit. Aggirano la spettacolarizzazione. Riesaminano plastici i giorni, al centro dell’inquadratura i testimoni e l’evidenza, in gran parte ancora tutta da “processare”, delle immagini reali. I gas urticanti, gli sguardi “drogati” di poliziotti e carabinieri, le spedizioni punitive, le mani bianche, alzate, pacificamente abbarbicate ad una pretesa di alternativa democratica al summit delle banche e delle multinazionali. Fracassi e sodali non chiedono fede cieca ma almeno un’occhiata, per riaprire un’indagine che mendica risposte. Quell’“urlo” ci addita, non sappiamo fare “oh!”.
Sarah Panatta

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